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L’assistente vocale ci spia. Apple paga, ma non ammette il torto

Foto di André Lira da Pixabay

Assistenti vocali spioni. Ladri di conversazioni per analizzare le nostre abitudini da usare per il grande gioco della “profilatura” che serve a proporci beni e servizi su misura, ufficialmente per i nostri bisogni ma realmente per alimentare il business di qualcun altro. Tutto vero, tutto provato. Sull’onda dell’ipocrisia degli artefici, come dimostra la vicenda emersa nelle ultime ore nel Paese leader della tecnologia ma anche dei suoi effetti collaterali: gli Stati Uniti. La notizia è grave di per sé, ma ancor più grave se guardiamo cosa c’è dietro: Apple si è impegnata a pagare 95 milioni di dollari ai partecipanti ad un’azione collettiva (solo una delle numerose “class action” che tengono banco su vicende simili) intentata già da qualche anno da un buon numero di utenti di Siri, l’assistente vocale della mela. Ma si ostina a non ammettere il torto.

Apple Siri e il risarcimento da 95 milioni: la class action che fa rumore

L’azione si riferisce al periodo tra il 17 settembre 2014, quando è stato lanciato “Ehi Siri” con la versione IOS 8 del sistema operativo del colosso informatico, e il 31 dicembre scorso. Chiunque possa dimostrare davanti a un giudice (per ora solo negli Usa) di avere utilizzato in quest’arco di tempo un dispositivo abilitato Siri (un assistente vocale ma anche uno smartphone) potrà ricevere una cifra poco più che simbolica, fino a 20 dollari per dispositivo per al massimo cinque dispositivi.

La procedura di rimborso non sarà semplicissima. Bisognerà documentare qualche episodio specifico di aperta violazione della privacy, giurando formalmente sulla veridicità di quanto si dichiara. Una pratica, quella del giuramento relativo a una testimonianza, che negli Stati Uniti assume le caratteristiche di un atto di grande rilevanza formale e sostanziale, con pene durissime in caso di falso accertato.

Risarcimenti minimi e gravi violazioni della privacy

Lieve, comunque, il risarcimento previsto. Pesante quel che c’è dietro. Apple non ammette la colpa. Continua a trincerarsi sulle motivazioni, sulle giustificazioni e sulle “tecniche” di ascolto delle conversazioni private attraverso questi mezzi, esattamente come hanno fatto e continuano a fare gli altri protagonisti del gioco, ovvero Google con il suo ecosistema di assistenti e Amazon con il suo sistema Alexa. Il mantra delle giustificazioni ufficiali è sostanzialmente questo: se si ascolta lo si fa a campione, si elabora in forma rigorosamente riservata e anonima, si utilizza tutto ciò per perfezionare gli algoritmi il servizio. Qualcosa può essere sfuggito di mano? Può darsi, ma le procedure vengono revisionate costantemente e il dolo – insistono – non esiste.

Apple sostiene di avere patteggiato il pagamento di 95 milioni di dollari relativo all’azione appena chiusa per quieto vivere, nello spirito di collaborazione a vantaggio di tutti. Ma le cose, analizzando bene la vicenda, appaiono di tenore molto diverso.

Siri e privacy violata: il rapporto che ha svelato l’ascolto di conversazioni sensibili

L’azione collettiva ha preso il via da un rapporto del 2019 che dimostrava come un buon numero di “contractor” (collaboratori esterni all’azienda) incaricati del controllo qualità ascoltavano regolarmente conversazioni con informazioni sensibili. E che queste informazioni avevano prodotto, in un certo numero di casi dimostrati, offerte mirate di servizi e prodotti effettuate subito dopo conversazioni intercettate dal Siri.

Che qualcosa, più di qualcosa, fosse vero lo dimostra il fatto che Apple nell’estate del 2019 aveva interrotto il programma di “affinamento” di Siri attraverso i collaboratori esterni licenziandone più di 300 per poi riprendere il programma. Il nesso tra la sospensione del programma e i licenziamenti è più che sospetto. Ma a confermare la verità incontestabile, e cioè che siamo spiati regolarmente dagli assistenti vocali, è una pratica empirica che ciascuno di noi può mettere in atto.

Assistenti vocali e spionaggio: quando la lucetta tradisce la privacy

Quanti di noi si sono ritrovati con la lucetta dell’attività di ascolto in corso dell’assistente vocale accesa, magari solo per pochi istanti, senza che avessimo pronunciato alcun comando di attivazione? Quanti di noi sono stati sorpresi più di una volta dalla loquacità dello smartphone che ci chiede, non interpellato in alcun modo, di riformulare un quesito che non ha capito? Miracoli degli algoritmi, che spiandoci di nascosto per fortuna fanno anche loro qualche passo falso per farsi scoprire.

Magra consolazione (si fa per dire) in tutto ciò: il battaglione delle spie, con annesso materiale fertile per gli hacker, è ben più nutrito da quello rappresentato dagli assistenti vocali. Solo per rimanere nel girone dei telefonini e del pc è ormai evidente a tutti noi il gioco forsennato delle profilature quando accettiamo i “cookies” dei siti Internet o quando diamo un semplice assenso ai questionari sulla privacy, vedendo comparire sul nostro schermo offerte curiosamente collegate a ciò che stiamo semplicemente esplorando. Ed è solo, credeteci, la punta di un iceberg.

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