L’aspetto principale del dibattito in corso sull’art.18 della Legge 20 maggio 1970 n° 300, meglio nota come Statuto dei Lavoratori, per quanto riguarda le Aziende è l’applicazione di quella parte della norma che riguarda il reintegro in azienda del lavoratore a seguito della sentenza del Magistrato che ha ritenuto illegittimo il licenziamento del medesimo.
Sulla modalità del reintegro si è sviluppata, nel tempo, una copiosa giurisprudenza ed ancor oggi, in particolare su casi eclatanti, si riscontra un ulteriore dibattito.
Infatti la prassi, ormai consolidata, che il reintegro possa essere correttamente esercitato dall’azienda con il pagamento della retribuzione e con il rifiuto della prestazione da parte del datore di lavoro viene comunque contestata dall’ala più oltranzista del Sindacato, in quanto il cosiddetto reintegro “per equivalente” non rispetta la dignità del diritto al lavoro e non cancella l’ingiustizia dei licenziamenti discriminatori, che non possono essere barattati con risarcimenti economici.
E’ chiaro che ad un’Azienda è difficile accettare il reintegro del lavoratore che è stato licenziato per un comportamento tenuto in violazione di una norma e che comunque ha fatto venir meno il rapporto fiduciario. La giurisprudenza ha giocato in Italia un ruolo importantissimo sulla valorizzazione del reintegro derivante dall’art. 18. A titolo esemplificativo si citano alcuni casi di cui, per rispetto della privacy, non si riportano i nominativi (vengono sostituiti dalla “X” e dalla “Y”):
– il lavoratore X, che aveva diffuso, con strumenti aziendali dedicati esclusivamente al servizio, un volantino contenente espressioni denigratorie ed esortazioni a compiere atti violenti, viene reintegrato in quanto “incitare al sabotaggio non è un illecito, ma espressione di critica sindacale” e “le espressioni ed i vocaboli utilizzati dal lavoratore devono essere letti nel loro contesto di conflittualità aziendale”;
– il lavoratore X che si assenta dal lavoro per assistere la figlia di due anni malata di varicella in base alla legge sui congedi parentali e, contraddicendo quanto rappresentato nel certificato medico, nella stessa giornata si reca presso lo stabilimento FGA di Pomigliano d’Arco (distante oltre 200 km!) per partecipare alla manifestazione svoltasi dinanzi ai cancelli di quella fabbrica, viene reintegrato a seguito della dichiarazione di illegittimità del licenziamento;
– i lavoratori X e Y che, non avendo trovato consenso allo sciopero da loro organizzato, bloccano la normale attività produttiva, sono reintegrati nonostante il Magistrato di merito abbia compiutamente argomentato, al termine di una lunga istruttoria, che il fatto era accaduto e che i tre licenziati, ben comprendendo gli effetti della loro condotta. avevano perseverato nella loro azione in pregiudizio dell’azienda (ndr. il magistrato de quo è stato assegnato ad altro incarico);
– il lavoratore X che, spacciandosi per sottufficiale della Guardia di Finanza ed esibendo un distintivo contraffatto aveva preteso dai titolari di alcuni esercizi commerciali la consegna di merce senza pagarne il corrispettivo, viene reintegrato perché il comportamento non è così grave da essere licenziati, atteso il modesto importo dei beni fattisi consegnare e la semplicità delle mansioni a cui era assegnato il dipendente; inoltre la risonanza del comportamento non è tale da concretare un grave danno all’immagine della Società, dal momento che la notizia è stata resa pubblica (solo) da un giornale a diffusione locale;
– il lavoratore X, che aveva trafugato alcuni oggetti, tra cui un navigatore satellitare, conservandoli nel proprio armadietto personale, viene reintegrato in quanto il magistrato ritiene mancante la ”prova dell’elemento soggettivo” al momento della sottrazione del bene; in buona sostanza, il lavoratore avrebbe agito in buona fede, custodendo nel proprio armadietto il materiale proprio al fine di evitare che gli stessi venissero rubati!
Il combinato disposto dell’art.18 e del comportamento della Magistratura determina, pertanto, una situazione in cui l’Azienda non solo non è libera di operare con lavoratori con i quali non sussiste più la minima condizione del rapporto fiduciario, ma è costretta a riconoscere loro la piena agibilità, con conseguente onere economico, per evitare ulteriori rischi di discriminazione.
I casi segnalati riguardano, prevalentemente, persone impegnate politicamente o in attività sindacale oppure in qualche modo collegate a questa, e pertanto emerge un aspetto ancora più preoccupante, ossia che la violazione delle normali regole di correttezza trovi maggior attenzione nei confronti di lavoratori che ricoprono un ruolo politico/sindacale, tale da poter definire questa una “discriminazione al contrario”.
Con la conseguenza, per l’Azienda, di dover ”subire” decisioni a dir poco sorprendenti, quando non paradossali, e comunque incompatibili con una corretta gestione aziendale. Non è casuale che, molto spesso, comportamenti ritenuti inaccettabili dall’azienda siano stati avallati dalla magistratura come legittimi o meritevoli di “particolare” tutela, solo perché agiti da lavoratori con un ruolo sindacale, con l’effetto di creare il convincimento generalizzato che in azienda tutto sia consentito pur di arginare, come sostiene un certo sindacato o una parte dell’opinione pubblica, lo “strapotere dell’azienda”.
Per il reintegro per giusta causa in caso di licenziamenti per comprovati motivi discriminatori non è necessario scomodare il “totem” dell’art.18 dello Statuto dei Lavoratori, è sufficiente rifarsi a quanto previsto dalla Costituzione e tutelato dal Codice Civile. La verità è che l’art.18, lungi dal cancellare l’ingiustizia di licenziamenti discriminatori, ha invece sovente dato copertura “politica” a licenziamenti legittimi, con il rischio di vulnerare irrimediabilmente la certezza del diritto.
La rappresentanza in Azienda
Un tema che dovrebbe trovare assoluta priorità se si vuole modificare il sistema di relazioni industriali è quello della rappresentanza sindacale in azienda, ma oggi su questa materia esiste soltanto un “assordante silenzio” anche per la totale latitanza di Confindustria.
Confindustria e Organizzazioni Sindacali ritengono di aver compiutamente regolamentato l’argomento con l’Accordo Interconfederale del 31 maggio 2013, ma a parte la necessità di una lunga aspettativa di vita per poterne apprezzare gli eventuali risultati, il tema non affronta le vere problematiche dei rapporti in Azienda con i rappresentanti dei lavoratori.
La sentenza della Corte Costituzionale del luglio dello scorso anno ha aperto una prateria per qualsivoglia Organizzazione Sindacale ritenga di legittimarsi a rappresentare i lavoratori e pertanto, in particolare nelle medie e grandi imprese, si potrà verificare un proliferare di sigle sindacali sulla cui rappresentatività si potrebbero esprimere grandi perplessità; la principale conseguenza sarà, inevitabilmente, quella di dover gestire la concorrenzialità tra le varie organizzazioni anziché trovare una soluzione ai problemi dei lavoratori.
Non è il caso di citare il caso Fiat, dove il numero dei Sindacati che pretendevano la rappresentatività sindacale aveva raggiunto il numero di 7. Una recente decisione del Tribunale di Busto Arsizio ha riconosciuto piena rappresentatività ad un CUB Trasporti di Varese, con facoltà per lo stesso di negoziare la propria piattaforma rivendicativa, nominare proprie RSA con il riconoscimento alle stesse di tutti i diritti sindacali, indire assemblee.
Anche su questo tema il totale silenzio di Confindustria e le differenti opinioni nell’ambito politico non aiuteranno le Aziende ad avere, al loro interno, corretti rapporti sindacali e soprattutto quella chiarezza di relazioni che è necessaria per l’efficace funzionamento dell’impresa.