Le memorie di Nikolaj Punin in italiano. Un classicissimo. Grazie alla Fondazione Prokhorov e a Memorial, la cui attività non sarà mai abbastanza elogiata, esce in lingua italiana un classicissimo della memorialistica d’arte. Si tratta de L’arte in rivolta. Pietrogrado 1917 di Nikolaj Punin, traduzione e cura di Nadia Cigognini, edito da Guerini e Associati con goWare per l’edizione digitale. Si tratta delle memorie, anche se l’autore non vuole che si chiamino così, di uno dei protagonisti da impresario, scrittore e critico d’arte in una delle stagioni più indimenticabili della grande arte russa. Queste memorie coprono gli anni 1916 1917 durante il quale scoppia la rivoluzione russa e si gettano le fondamenta di una nuova arte. Il progetto di Punin era quello di coprire il periodo 1916–1925, ma negli archivi si sono ritrovati solo i primi 12 capitoli delle memorie relativi appunto al 1916 e al 1917. Sono gli anni come scrive Punin nel quale “siamo noi ad avere fatto la ‘storia’ e qui ci preme spiegare perché l’abbiamo fatta”.
La parabola di Punin
Nelle memorie raccolte L’arte in rivolta, Punin ricostruisce gli eventi storici e politici di cui è diretto testimone, il milieu, anche fisico, nel quale nascono i fondamenti estetici della nuova arte che Punin avrebbe difeso con rigore nell’intero arco della sua attività come critico, funzionario pubblico e cittadino. Punin è stato una figura chiave nel mondo dell’arte russa. Attentissimo alle nuove tendenze, sensibile al fascino delle avanguardie e alle teorie innovative e sperimentali tanto da meritarsi l’appellativo di “futurista” da parte di artisti e storici dell’arte, emerse come uno degli intellettuali più raffinati, influenti ed eruditi del suo tempo. Nel 1918 Anatoli Lunacharsky, ministro dell’istruzione, lo nominò Commissario del popolo per il museo russo e per l’Ermitage. Caduto in disgrazia nell’era staliniana, accusato di formalismo e di attività antisovietiche, fu internato in un gulag dove trovò la morte nel 1953. Il suo lascito è enorme. Si deve a Putin se ancora oggi nei musei russi si può trovare molta arte occidentale bollata dalle autorità sovietiche del tempo staliniano come arte degenerata e quindi meritevole di occultamento se non di distruzione. Siamo lieti di offrire ai nostri lettori l’introduzione al testo integrale del libro, che abbracciava il periodo dal 1916 al 1925. Buona lettura!
Sappiamo quello che vogliamo
Questo non è affatto un libro di memorie, benché sia dedicato agli avvenimenti del passato, quanto piuttosto un libro dove si afferma il futuro. Il mio intento è quello di affermare dinanzi al futuro il mio punto di vista individuale sugli avvenimenti accaduti in un arco temporale compreso tra il 1916 e il 1925 e sul loro significato. Vorrei costringere i lettori a valutare il passato attraverso i nostri criteri; con ciò non pretendo che i nostri siano gli unici criteri autentici o addirittura i migliori. Quel che posso affermare a difesa di tali criteri è che essi sono criteri veri che corrispondono a un sistema organico di interazioni, che non sono un insieme casuale di opinioni e impressioni, tutto qui. Gli eventi ci scuotono e continuano a scuoterci, eppure malgrado tutto non ci sentiamo vinti; pur non essendo riusciti a sottometterli alla nostra volontà, siamo stati in grado di dominarli e continuiamo a dominarli attraverso il nostro pensiero; sapevamo che cosa volevamo e sappiamo che cosa vogliamo. Nella nostra epoca non accade di frequente. Si dice che il fatto sia un intruso ed è vero, ma gli intrusi si mettono gentilmente alla porta. E noi sappiamo bene quali mezzi vengano usati per mettere i fatti alla porta; se così non fosse non avremmo potuto partecipare alla Rivoluzione.
Quei favolosi anni
In breve, vorrei affermare che non intendo essere obiettivo e che l’evolversi degli eventi più oltre descritto, se può definirsi storia, lo è soltanto nel senso in cui siamo noi ad aver fatto la «storia» e qui ci preme spiegare come e perché l’abbiamo fatta. A tale proposito mi sento di citare Benedetto Croce che nel suo saggio Sulla forma scientifica del materialismo storico scriveva: «Labriola… non mi ha raccontato egli stesso una volta, che l’Engels aspettava ancora altre scoperte che ci aiutino a intendere questo mistero che noi stessi facciamo, che è la Storia?». In questo libro vorrei raccontare gli avvenimenti che hanno segnato la nostra vita artistica nel periodo che precedette la Rivoluzione e soprattutto la Rivoluzione stessa all’epoca in cui venne istituito il Dipartimento delle arti figurative del Narkompros; nonché quei «favolosi anni» in cui nei soviet distrettuali dei deputati del popolo vennero istituite le sezioni delle arti e queste sezioni erano gremite di «futuristi». Ricollego questi avvenimenti a un tema che definirei come «lotta per una cultura realistica dell’arte». Ma sarò nel giusto? Si può davvero ritenere che la cultura realistica sia stata la vera protagonista di questi avvenimenti? E ancora, si può pensare che nelle sezioni rivoluzionarie del Dipartimento delle arti figurative, dietro a tutti quei nomi almeno per una metà ormai dimenticati, vivesse e agisse un potente realismo? Non ho dubbi al riguardo poiché, se esistono nel mondo un senso e un’unità, l’unico senso di quello specifico gruppo di fenomeni s’incarnò nel realismo. Fu proprio il realismo a improntare le azioni di quel gruppo di artisti e a far sì che né le infatuazioni individuali, né gli interessi personali di alcuni condizionassero gli avvenimenti bensì qualcosa che esisteva indipendentemente da loro e che convogliava i loro frammentari e contraddittori sforzi verso un unico scopo, sfociando forse in ognuno di loro in un dramma personale poiché quello scopo non venne mai conseguito.
Tutti nella stessa direzione
Va detto che gli artisti che si assunsero negli anni del comunismo di guerra la gravosa responsabilità delle sorti dell’arte sovietica erano assai divisi e che molti di loro si erano incontrati per la prima volta dopo i giorni dell’Ottobre. Da dove scaturivano allora quella reciproca comprensione, quell’entusiasmo che li spingeva ad agire tutti nella stessa direzione? Si obietta che quello era il «futurismo» e che ciò valeva per gli artisti che avevano aderito al movimento futurista, i «futuristi», ma non è così. Innanzi tutto in Russia non esisteva o quasi il «futurismo», nell’accezione letterale di questo termine, e inoltre, in tutto l’arco di quegli anni i gruppi più «futuristi» erano rimasti in disparte, fatta eccezione per il solo Majakovskij. Tuttavia, Majakovskij non rappresentava i movimenti delle arti figurative a cui intendevamo in massima parte riferirci; e poi non sarebbe il caso di accostare un nome così altisonante a quello puro di Chlebnikov… Molti di noi a Chlebnikov devono tutto, mentre per noi Majakovskij rappresenta il LEF.
Una necessità indifferibile
A creare l’arte del periodo del comunismo di guerra non sono stati né il futurismo, né i futuristi. Del resto, come sarebbe potuto accadere che una singola corrente o singole personalità detenessero allora una simile prerogativa? L’arte di quell’epoca era il prodotto della cultura artistica del passato; recava in sé una «necessità indifferibile», un’ineluttabilità storica ed era portatrice dell’impeto rivoluzionario così come lo era ogni soviet dei deputati del popolo. Talvolta ho l’impressione, per quanto improbabile, che se non vi fosse stata la Rivoluzione, non sarebbero esistite neppure le correnti di sinistra: avrebbero germinato al suo interno per poi emergere in forme più o meno tradizionali. Tutta la matrice di sinistra dell’arte di quel tempo forse non era che un segno della sua immaturità. So che alcuni compagni di partito accuserebbero Lunačarskij di aver generato la «canaglieria futurista». I marxisti! Ma sarebbe potuto accadere altrimenti?… Del resto su questo ci soffermeremo più oltre ed è meglio lasciar parlare i fatti… Così non è stato tanto il futurismo, ma qualcosa di più profondo a essere generato dalla Rivoluzione e a essersi annidato nella stessa cultura artistica russa; qualcosa che vi ribolliva da tempo, soffocato dall’abnorme corso della storia con tutta la sua furia repressa… Talvolta sembrava che fossero stati la volontà di un popolo di molti milioni di persone e un terribile impulso a produrre una creazione realistica infinitamente vitale: era questo il vero contenuto dell’arte di quell’epoca. Eravamo nel 1916 e nessuno si aspettava una guerra così pesante e prolungata.
Nikolaj Punin (1888–1953), critico, teorico e storico dell’arte, è una figura chiave della vita culturale della Russia pre e postrivoluzionaria. Dopo aver frequentato il liceo di Carskoe Selo, si laurea in storia dell’arte all’Università di Pietroburgo nel 1914, ma già nel 1913, ancora studente, viene invitato a collaborare con il Reparto antichità cristiane del Museo russo ed esordisce sulla prestigiosa rivista Apollon, diretta da S. Makovskij, il primo a scoprire il suo brillante talento. Da quel momento comincia a pubblicare una fitta serie di articoli e saggi che spaziano dalla pittura russa antica alla grafica giapponese all’arte europea. Nel 1917 aderisce al cosiddetto «fronte di sinistra» degli artisti che si batte contro la componente reazionaria e conservatrice del mondo artistico per l’affermazione dei fondamenti della nuova arte. Nel 1918 viene nominato da Lunačarskij responsabile del Dipartimento delle arti figurative e commissario del Museo Russo e dell’Ermitage e si dedica con passione all’attività museale e all’insegnamento, partecipando attivamente alla vita pubblica, ma già alla fine degli anni Venti i suoi lavori vengono sottoposti a censura. Dagli anni Quaranta s’intensificano le accuse di formalismo contro la sua persona e Punin diviene oggetto di una violenta campagna persecutoria. Nel 1949 è internato in un lager nei pressi di Vorkutadove trova la morte nel 1953. La rivoluzione aveva chiuso così i conti con uno dei suoi intellettuali più eruditi e raffinati.