La proposta di patto per la produttività delineata da Marcello Messori nell’intervista pubblicata su FIRSTonline del 29 settembre scorso, ove accolta, darebbe al negoziato interconfederale in corso su questa materia una chiara direzione di marcia. Questa a tutt’oggi è incerta anche perché il governo ha consegnato il tema alle parti sociali senza esplicitare un proprio punto di vista. Il rischio, perciò, è che il confronto si concluda con affermazioni di principio, ma senza indicazioni concrete. Questo forse sarebbe utile per sostenere a Bruxelles che l’Italia sta facendo qualcosa, ma non servirebbe a porre concretamente mano al gap di produttività del Paese rispetto ai nostri più importanti partner europei. Come ha recentemente rilevato l’Istat si tratta di un gap preoccupante: in termini di produttività siamo cresciuti meno della media europea, il modesto incremento del PIL che si è registrato dopo l’ingresso nell’euro è dipeso dall’aumento dell’occupazione e non da miglioramenti di efficienza.
Come avvenne agli inizi degli anni ’90 per battere l’inflazione e creare le condizioni per l’ingresso nell’euro, anche oggi è necessario individuare un catalizzatore che permetta di concentrare gli sforzi di tutti gli attori economici e istituzionali attorno all’obiettivo della crescita della produttività. In altre parole, si tratta di compiere uno sforzo per moltiplicare il numero delle nostre imprese vincenti nella competizione internazionale e per far riconoscere un maggiore valore al lavoro italiano. La produttività cresce col crescere della dimensione aziendale: l’Italia ha troppe micro imprese e questo è un handicap grave, per di più siamo troppo specializzati in settori a più bassa produttività, a differenza di Francia e Germania da noi non sono cresciute grandi imprese in settori ad alta intensità di ricerca e sviluppo.
Le nostre imprese di successo (le medie imprese del cosiddetto quarto capitalismo) sono, infatti, troppo poche per fare massa critica. La protezione rispetto ai differenziali di produttività offerta dalla basse retribuzioni, infatti, ha disincentivato larga parte delle imprese ad affrontare i costi e i rischi del salto dimensionale e dei processi di innovazione. Sono stati proprio questi ultimi così carenti da impedire lo sfruttamento dei benefici potenzialmente garantiti dalle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT). Oggi, infatti, le dinamiche della produttività del lavoro e della produttività totale dei fattori dipendono essenzialmente dalla capacità di innovare l’organizzazione dell’impresa e del lavoro. L’idea di recuperare competitività riducendo il costo del lavoro per unità di prodotto (CLUP) con la compressione dei salari va dunque respinta. In questo modo, infatti, si ridurrebbe ulteriormente la domanda aggregata e non si incentiverebbero le imprese a impegnarsi in innovazioni organizzative, di processo e di prodotto. Anche l’idea che basti incentivare l’impegno dei lavoratori per innalzare la produttività non è supportata dai numerosi lavori teorici e empirici che hanno dimostrato, invece, la centralità del progresso tecnico, della dotazione di capitale per addetto, della qualità del capitale umano.
La proposta avanzata da Messori, e discussa in un recente seminario di Astrid, mette in campo un forte incentivo nella direzione giusta, per elevare gli investimenti in tecnologie innovative e adottare i connessi cambiamenti organizzativi e gestionali. Con la produttività programmata, infatti, le imprese più efficienti riceverebbero un premio dato dalla differenza tra il loro tasso di crescita della produttività ed il tasso programmato di incremento delle retribuzioni, mentre quelle meno efficienti sarebbero punite da un CLUP crescente e, quindi, costrette a ristrutturarsi o uscire dal mercato.
La programmazione della produttività comporta la soluzione di una serie di questioni complesse. A differenza di quanto fatto per ridurre l’inflazione non è possibile pensare a un tasso di crescita dei salari unico: bisogna tener conto dei valori assoluti di partenza, delle differenze settoriali, avere come benchmark i paesi europei più virtuosi. Si tratta di approfondimenti non semplici ma che possono essere fatti in tempi abbastanza contenuti. Il CNEL ha già avviato una riflessione sulla produttività e ha attivato convenzioni con l’ISTAT e il CNR proprio per affrontare problemi di questa natura.
La proposta però, come riconosce Messori, è più complessa sotto il profilo politico, soprattutto in una fase di grave recessione dell’economia italiana. Proprio per questo occorre un ruolo attivo del governo che deve fare la propria parte anche in presenza di vincoli stringenti di finanza pubblica. C’è il tema delle infrastrutture, quello prioritario degli ammortizzatori sociali e, soprattutto quello della ristrutturazione degli incentivi alle imprese. Gli incentivi, infatti andrebbero rimodulati a favore delle imprese che hanno una migliore produttività, che sono capaci di esportare su più mercati, che investono in R&S e in capitale umano. Questa rimodulazione si dovrebbe accompagnare ad alcuni progetti tecnologici capaci di valorizzare alcuni vantaggi competitivi già esistenti. Nessun dirigismo, dunque, ma una politica industriale capace di far leva su potenzialità già espresse dal sistema produttivo del Paese.