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L’Alitalia e l’insostenibile rinazionalizzazione dei Cinque Stelle

La proposta del ministro grillino Toninelli di rinazionalizzare l’Alitalia è fuori dalla realtà perché nemmeno se gli aerei della compagnia volasero sempre pieni si raggiungerebbe il pareggio di bilancio: troppo alti i costi fissi – Ma anche l’ex ministro Calenda ha le sue responsabilità

L’Alitalia e l’insostenibile rinazionalizzazione dei Cinque Stelle

La posizione sull’Alitalia espressa dal ministro Danilo Toninelli per conto di tutto il M5S per me è fuori dalla realtà ma per nulla sorprendente. Ho avuto infatti modo di capirla a inizio marzo 2017, un anno e mezzo fa. Fui invitato con grande cortesia dai parlamentari pentastellati delle Commissioni Trasporti di Camera e Senato affinché gli spiegassi le condizioni gestionali, economiche e finanziarie della compagnia commissariata. Lo feci proiettando 18 slide. Fui vincolato alla riservatezza sui loro orientamenti. Ho rispettato l’impegno fino all’esternazione l’altro giorno del ministro, che mi ha liberato.

Spiegai quel giorno che nel 2015 (ultimo bilancio disponibile perché i commissari non depositano o non pubblicano un bilancio ufficiale), su 2.942 milioni di fatturato netto, i costi variabili (cioè i consumi di carburante e altro) erano pari a 2.815 milioni (96 per cento dei ricavi), e i costi fissi (lavoro e ammortamenti) erano pari a 710 milioni. Il risultato dell’attività operativa era negativa per 584 milioni.

Il grado di riempimento della capacità di trasporto (passeggeri e merci) necessario per raggiungere l’equilibrio economico, cioè per riportare il risultato operativo a zero, sarebbe stato pari al 430 per cento, cioè gli aerei Alitalia avrebbero dovuto volare tutti i giorni dell’anno pieni non al 100 per cento, ma a quattro volte tanto, cioè avrebbero dovuto viaggiare con i passeggeri stipati in piedi, anzi legati alle ali e ai finestrini fluttuando nell’aria fuori dagli aerei. Nel 2015 il riempimento effettivo fu pari a un molto buono 77 per cento.

Queste cifre richiedevano, a parità di ogni altra condizione, un taglio del costo del lavoro pari a 584 milioni, contro uno consuntivo di 600 milioni. In altri termini, l’esubero occupazionale era pari al 97 per cento (584 diviso 600), un assurdo evidentemente, sotto l’aspetto non solo sociale, ma anche di organizzazione aziendale. Anzi, assurdo mica tanto, significava che per essere competitiva, l’Alitalia avrebbe dovuto trasformarsi in una low cost, senza struttura aziendale, senza costi fissi.

Ovvero, per ridurre l’incidenza percentuale dei costi fissi, avrebbe dovuto avere un giro d’affari decine di volte superiore al fatturato 2015 di quasi tre miliardi, cioè avrebbe dovuto trasformarsi in un player mondiale. Queste cose che spiegai io amichevolmente ai 5S, le avevano illustrate più o meno uguali Roland Berger e KPMG all’Alitalia non ancora commissariata con una consulenza professionale.

I parlamentari 5S ascoltarono, capirono, ma non accettarono, dissero che l’Alitalia si sarebbe dovuto nazionalizzare un’altra volta. Un po’ ingenuamente insistetti, dissi che il problema era non finanziario (capitale di rischio e credito), quanto economico (dimensione aziendale insufficiente e al tempo stesso eccessiva, insomma né carne player mondiale, né pesce low cost). Dissi anche che la nazionalizzazione avrebbe contribuito ad aumentare la spesa pubblica di parte corrente. Fu vano, mi risposero piccati che poteva aumentare anche il debito pubblico, poco importava.

I commissari straordinari hanno il compito generale di sbrigarsi a liquidare l’azienda e ricollocarne rami sul mercato, per introitare risorse e con queste soddisfare parzialmente i creditori, contemperando al massimo possibile la salvaguardia dei posti di lavoro. La fretta del loro mandato discende dal fatto che la gestione deficitaria con il fluire del tempo erode le ragioni di credito e indebolisce la solidità dell’organico aziendale.

Invece, sotto l’indirizzo del ministro vigilante Carlo Calenda, i commissari hanno dapprima preso tempo chiedendo con un bando pubblico consigli agli operatori interessati su come risanare l’azienda per via finanziaria premiando l’obiettivo dell’integrità aziendale, in via preferenziale rispetto alla cessione di singoli rami. Questi consigli bastava cercarli nella relazione di Roland Berger e KPMG, senza parlare poi degli articoli gratuiti a firma del sottoscritto.

Inoltre, sotto la guida di Calenda, i commissari dell’Alitalia hanno preso altro tempo e hanno chiesto dapprima un prestito ponte di 600 milioni e poi un secondo di 300, che si ragguagliano a un anno e mezzo di perdite operative a cifre 2015. Questo prestito è in prededuzione, cioè se mai in futuro i commissari riuscissero a introitare qualche soldo, dovrebbero destinarlo al rimborso del prestito e nulla resterebbe per rimborsare i debiti fallimentari, con ciò confermando la mia tesi dell’erosione delle ragioni di credito (e dei posti di lavoro). I dati di gestione comunicati due giorni fa sul primo trimestre 2018 non modificano in alcun modo queste conclusioni, confondono solo le idee a chi già non ce l’ha chiare.

Ora che Calenda è uscito di scena e non ha venduto l’Alitalia né intera, né a pezzi, i nodi vengono al pettine, e il governo a guida 5S indica la soluzione della ri-nazionalizzazione, inventando impossibili e indimostrabili sinergie con Ferrovie, o giurando che l’intervento azionario della Cdp sarà di minoranza e temporaneo, e balle varie.

Così sarà la Cdp a dare i soldi per rimborsare il prestito in prededuzione. Ricordo ancora la risata argentina con cui l’esponente 5S alla mia obiezione critica sulla spesa pubblica rispose piccata: «anche debito pubblico, va bene?». Il vice premier Di Maio dice che andrà in giro per il mondo a cercare chi gli risolve il problema. Siamo punto e daccapo. Ne parliamo al prossimo governo?

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