Già quel diminutivo, Stortina Veronese, che questo piccolo salamino si porta avanti da quando è nato, e che fa riferimento alla sua forma, rende l’idea di una certa intimità di povere pareti domestiche contadine, ci fa capire che stiamo di fronte a un prodotto umile, un tempo destinato al consumo delle famiglie, al più da portarsi appresso in una tasca quando si andava a lavorare nei campi. Un salamino ricurvo e anche di piccolo calibro, non più di 200 grammi da conservare in casa e mangiare con un tozzo di pane o accompagnato con la polenta. Siamo nelle Grandi Valli della pianura veronese, dove la cultura rurale ha resistito nel tempo alle trasmigrazioni germaniche, all’umiliazione barbarica degli Unni; alle contese fra i Visconti e gli Scaligeri, al dominio dei veneziani, alle scorribande e devastazioni di vari eserciti fino a che nel 1866, con un plebiscito quel territorio venne annesso al Regno d’Italia di Vittorio Emanuele II.
In tutto questo affastellarsi di poteri e dominazioni l’umile cultura contadina della bassa veronese seppe resistere nei secoli rinchiudendosi in se stessa. La cucina, come ambiente domestico, diventava il momento in cui raccogliersi interrogandosi sul presente e sul futuro, in attesa di tempi migliori. L’unica ricchezza dei contadini di queste parti era costituita dagli ingredienti della campagna, dell’orto e dell’aia che si concretizzavano in una cucina povera, semplice e genuina che ha saputo mantenere nella quotidianità della famiglia una sommessa identità arrivando fino a noi. Della continuità storica di quella civiltà contadina mantenuta viva dalla tradizione è testimonianza la Stortina, un gustosissimo salamino dai mille profumi, che ancora oggi viene prodotta seguendo la stessa ricetta tramandata di generazione in generazione.
Perché la presenza del maiale da queste parti ha un’antica tradizione ed è talmente radicata nella cultura popolare che su molti edifici pubblici raffigurazioni dipinte o scolpite di maiali fanno bella mostra di sé. Ma la sua massima raffigurazione si trova su un bassorilievo del XII secolo del protiro della chiesa di San Zeno in Verona dove sono raffigurate scene di lavorazione del maiale.
Le carni, parti nobili di suini obbligatoriamente allevati nelle Valli, di piccola dimensione, lavorate con l’aggiunta di sale senza alcun conservante, prima di essere utilizzate vengono accuratamente selezionate. L’impasto, macinato a grana media, viene agliato e speziato prima di essere insaccato nella budella torta, ovvero il budello naturale bovino usato per gli insaccati.
La fase successiva è l’insaccatura dove si ottengono dei salamini corti e leggermente ricurvi da cui il nome Stortina. L’asciugatura per ottenere la giusta maturazione che un tempo avveniva nelle cantine oggi avviene in locali areati che conservano lo stesso grado di umidità ambientale delle cantine di una volta.
Certo le piccole dimensioni del salamino facevano sì che questo prodotto dovesse essere consumato entro pochi mesi dalla lavorazione per non subire processi di essiccazione.
Sarebbe stato facile aumentare le dimensioni e risolvere il problema. Ma questo avrebbe voluto dire tradire la sua storia e la sua tradizione. Ed è così che i contadini si ingegnarono per garantire una conservazione più duratura nel tempo con un espediente che ha fatto poi la fortuna della Stortina. Perché se l’obiettivo iniziale voleva essere quello di allungarne la conservazione, il risultato invece fu quello di esaltarne gusto profumo e morbidezza, rendendolo un salume unico nel suo genere, assicurando così la sua sopravvivenza fino ai giorni nostri. Cosa si inventarono dunque i contadini?
L’idea era a portata di mano, utilizzarono il lardo dello stesso maiale macellato, salato e macinato facendone una poltiglia che avvolgeva le Stortine che venivano messe a riposare dentro vecchie pentole di terracotta che venivano riempite alternando uno strato di lardo ad uno di salamini, e poi venivano lasciate in cantina dove potevano conservarsi a lungo protette dallo strato di grasso. Quando a distanza di mesi si volevano mangiare i salamini bastava togliere lo spesso strato di grasso in superficie, detto cappello, che a contatto con l’aria aveva subito processi di deterioramento per gustare in tutta la sua prelibatezza e fragranza di sapori una Stortina appetitosissima. Il grasso di superficie veniva buttato ma spesso l’impasto di lardo degli strati più bassi, rimasto intatto, finiva per dare maggior gusto al salume sciogliendosi con il pane caldo o con la polenta. Perché – e anche questo fa parte della filosofia della vita contadina – in campagna non si butta nulla e tutto si recupera.
Certo questo prelibato salamino è arrivato fino ai giorni nostri ma la sua produzione, legata agli usi e ai consumi di una volta, prodotta (forse per secoli) da una fitta reti di nuclei familiari, che, un tempo, realizzavano il salame per uso proprio è andata sempre più rarefacendosi nel tempo facendo temere una sua scomparsa, anche se ancora sopravvive un Palio della Stortina, dove si confrontano le produzioni casalinghe e le poche produzioni fatte da professionisti del territorio.
Fortunatamente la Stortina è entrata di diritto nei presidi della Fondazione Slow Food, grazie al lavoro svolto dalla Condotta guidata dal fiduciario Matteo Merlin, che ha ritenuto di dover proteggere questa prelibatezza “che viene proposta solo saltuariamente dai norcini della zona a causa della cura con cui deve essere fatta la lavorazione per l’utilizzo fresco e anche del costo di produzione, l’utilizzo di lardo macinato per la conservazione e di parti nobili nell’impasto lo rendono infatti un salume di pregio”. L’obiettivo del Presidio – aggiunge Matteo Merlin, infaticabile organizzatore anche del Palio che quest’anno si è trasformato anche per due giorni in una piazza dei sapori italiani di qualità – è di invogliare macellerie e salumerie del territorio a riprendere la produzione e a promuovere il salume al di fuori del Basso Veronese» secondo un disciplinare condiviso finalizzato a mantenere inalterate le caratteristiche di questo prelibato prodotto.
E il disciplinare prevede che per la sua produzione sono ammessi animali, in purezza o derivati, delle razze tradizionali di base Large White e Landrace, e della razza Duroc così come migliorate dal Libro Genealogico Italiano. L’età minima di macellazione è di nove mesi. Le carni destinate alla produzione della Stortina Veronese non devono aver subito alcun processo di congelamento e devono essere composte con tagli provenienti da Spalla, Prosciutto, Coppa, Lombo, Pancetta, Lardo.
Rigorosissimo infine il disciplinare per quanto riguarda le speziature, consentiti solo: Sale (cloruro di sodio) non inferiore al 2,5 %, Pepe franto 0.1-0.2 %, Pepe fino 0.05-0.1 %, Aglio fresco 0.1-0.2 %, Vino bianco 0.2 %.
Assolutamente vietati tutti i tipi di conservate come nitrato di potassio(E252), Nitrito di Sodio (E250).
Insomma mangiare una Stortina oggi è provare lo stesso piacere dei contadini di una volta. E loro in fatto di sapori genuini se ne intendevano.
Il suggerimento di First&Food
Poltronieri Salumi S.a.s.
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Da oltre sessant’anni mantiene in vita la produzione artigianale della salumeria veronese, ed in particolare della Stortina, che ha contribuito a promuovere in Italia e all’estero partecipando al Salone del Gusto di Torino fin dalla prima edizione.
Alla tradizionale lavorazione del Laboratorio Artigiano, l’azienda ha affiancato negli anni tecniche di produzione all’avanguardia, per garantire il massimo della qualità, dell’igiene e della sicurezza. Questo le permette di poter distribuire la Stortina Veronese del Presìdio Slow Food, in tutto il territorio nazionale.
Az.Agricola La Palazzina di Filippo Merlin
Via Isolella Bassa 3 –
37053 Asparetto di CEREA (VR)
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L’azienda agricola di Filippo Merlin, cognome simbolo della cittadina della bassa veronese, ha contribuito al mantenimento della tradizione nella produzione del tipico salume partecipando e vincendo alcune edizioni del Palio della Stortina fin dagli anni ’90.
Oggi propone la Stortina Veronese del Presìdio Slow Food nei mercati di Campagna Amica a Verona e in provincia.