C’è qualcosa di misterioso nell’Italia di questi ultimi anni. Una forza oscura la tiene inchiodata ad una crescita bassissima, quasi nulla, che impedisce di creare occupazione per un numero di persone paragonabile a quello di altre società avanzate, ma che nel contempo riesce ad assicurare un alto tenore di vita alla maggioranza della sua popolazione.
L’idea che gran parte di politici, giornalisti e intellettuali diffonde sul nostro paese, è che stiamo vivendo in una situazione catastrofica fatta di povertà, disoccupazione, lavoro nero o precario senza specificare che a trovarsi in posizione disagiata è solo una minoranza della popolazione (per di più costituita in larga parte da immigrati) omettendo invece di ricordare che per una larga maggioranza di italiani la situazione non è affatto drammatica e che anzi è diffuso un livello di benessere elevato, non dissimile da quello di altre economie occidentali.
Questo non significa che non ci si deve occupare di quella parte della popolazione che è rimasta indietro, ma che l’analisi della società italiana è distorta o errata e questo induce a diffondere paura e vittimismo tra la gente, mentre i decisori politici sono spinti ad adottare politiche che non risolvono alcun problema ed anzi, aggravano l’immobilismo socio-economico e quindi aumentano il senso di precarietà dei cittadini.
Luca Ricolfi, un sociologo appassionato studioso dei dati statistici, offre una lettura diversa ed originale della crisi italiana dove si è formata una configurazione sociale, forse unica al mondo, che coniuga l’opulenza nei consumi , con la riduzione del numero di cittadini che lavorano rispetto a quelli che non lavorano (non perché sono disoccupati, ma anche per propria volontà), e la stagnazione dell’economia non solo congiunturale ma come elemento strutturale di fondo. Cioè secondo Ricolfi noi abbiamo creato una “Società signorile di massa” (Edizione La nave di Teseo) dove molta gente riesce a vivere grazie al capitale accumulato dalle generazioni passate, accedendo a consumi di alto livello come auto, vacanze, ristoranti, ed ovviamente case di proprietà, senza impegnarsi in un lavoro e cioè senza affidare la propria affermazione sociale alla fatica di dedicarsi allo studio e al lavoro.
Una società che gioca moltissimo (si spende per lotterie varie quasi quanto si spende per la sanità), che legge poco, che ha pochi laureati, dove è elevata la presenza di Neet, cioè di giovani che non studiano e non lavorano, dove ci sono molti anziani e dove le nascite sono da tempo inferiori ai decessi, una società che sembra vivere nell’illusione di poter perpetuare nel tempo le caratteristiche delle società signorili del passato, mentre in realtà potrebbe quanto prima sfociare in una crisi che comporterebbe un forte regresso del tenore di vita di tutta la popolazione.
Una crisi profonda non solo economica, ma che ha cambiato la psicologia delle masse. Una crisi che Ricolfi ha sintetizzato come “signorile di massa” intendendo rappresentare l’aspirazione di una larga parte della popolazione a vivere come nel passato vivevano le classi privilegiate che erano però una esigua minoranza: vivere bene, permettersi consumi opulenti, senza impegnarsi nel lavoro. Questo sfocia in una società immobile, dove non si vuole in alcun modo affrontare il cambiamento, dove il rischio del nuovo è evitato, dove si allentano i legami comunitari e si afferma un individualismo edonistico basato sulla ricerca affannosa di giochi e distrazioni.
Ne viene fuori un’idea dell’Italia totalmente diversa dalla narrazione corrente. Scorrendo le pagine del libro si trovano dati e confronti internazionali che dimostrano la tesi dell’Autore. Vengono anche abbattuti molti luoghi comuni a cominciare da quello dell’aumento delle diseguaglianze di cui sono piene le narrazioni dei politici, fino a quello del declassamento del ceto medio.
Le diseguaglianze, dice Ricolfi, non sono aumentate negli ultimi vent’anni, mentre il ceto medio non è arretrato dal punto di vista del reddito e del patrimonio anche se la stagnazione economica e il non funzionamento dell’ascensore sociale hanno indotto molti di quel ceto a temere per il proprio futuro ed, ancor più, per quello dei propri figli e nipoti. I quali dal canto loro si difendono accontentandosi di porsi obiettivi più limitati, di utilizzare al massimo le “facilities” famigliari e quelle statali.
Nessuno si batte per cercare la propria affermazione nell’innovare, nel rischiare, nel proporre qualcosa di nuovo. Ci si accontenta di quello che si ha e nel contempo ci si sente vittime del sistema, ci si lamenta contro lo sfascio dei servizi pubblici a cominciare dalla scuola, anche se spesso è proprio a causa di un individualismo esasperato che si è prodotto un simile degrado.
Non ci sono le libro ricette precise su come uscire da questa situazione che fa dell’Italia un unicum mondiale. Ricolfi dice con chiarezza che un simile assetto sociale è instabile, che è illusorio pensare di tornare ai bei tempi del dopoguerra ( che poi non erano tanto belli ), che c’è il rischio concreto che l’equilibrio si rompa e si cada in una vera e propria recessione. Nelle società opulente dell’occidente che continua a crescere la percentuale della popolazione che lavora è molto più alta rispetto all’Italia ed addirittura crescente.
La produttività aumenta costantemente mentre da noi è stagnante, ed il divario con gli altri paesi è ormai diventato una voragine. Il debito pubblico che in parte è l’altra faccia della medaglia della ricchezza privata, è arrivato ad un tale livello che non solo impedisce la crescita del PIL, ma minaccia la stessa stabilità del sistema.
Per riprendere un sentiero di crescita e quindi per vincere le paure che paralizzano la nostra capacità di operare, occorre in primo luogo compiere una operazione verità. Capire veramente come siamo, prendere coscienza dei veri punti di debolezza che però servono a reggere le abitudini “signorili” della maggioranza, e cioè il lavoro nero e la massa sfruttata dei migranti.
Ricolfi sostiene che una delle ragioni, forse la principale, della nostra stagnazione è l’eccesso di legislazione e di centri politici decisionali che producono, in maniera confusa, regole spesso contrastanti e comunque tali da scoraggiare chi vuole fare qualcosa con onestà. Aggiungerei la necessità di recuperare il “merito” come metro di avanzamento sociale ed elemento per costruirsi una reputazione.
Dobbiamo riprendere a lottare così come fecero i nostri nonni nel dopoguerra. E per spingere i giovani a farlo non sarebbe inutile, insieme ad altre misure di snellimento burocratico e di miglioramento del funzionamento della giustizia, ripristinare anche una equa tassa di successione. Solo così il “giovin signore” potrà capire che non si può vivere di rendita.