Un protettorato turco con enclave russe e il riconoscimento per i curdi. Fantapolitica? O potrebbe essere questo il futuro politico della Siria all’indomani della fine del regime di Assad, la sua fuga a Mosca e la nascita a Damasco di un nuovo potere? Ovviamente non può che essere, al momento, materia di analisi geopolitica visto che gli attori sono tutti sul palcoscenico a recitare la propria parte, a cominciare dai principali, i ribelli che hanno preso il potere, raccolti nell’Hts, il movimento dominante della galassia che va sotto il nome di “Hay’at Tahrir al-Sham”, cioè “Organizzazione per la liberazione del Levante”, nome antico della Siria e dintorni.
Il loro leader, Al Jolani, continua a rassicurare il mondo invitando a non temere il suo governo perché, non solo esso non ha intenzione di introdurre regole persecutorie, ma è a tempo, si farà indietro in marzo, quando, si intuisce ma non è stato detto, dovrebbero esserci le elezioni.
Torniamo allora all’ipotesi della nuova Siria sotto l’influenza della Turchia, con importanti presenze russe e curde.
Il protettorato turco in realtà è già nei fatti, innanzitutto perché le forze ribelli che ora siedono nei palazzi del potere di Damasco, sono stati armati e sostenuti da Ankara fin dallo scoppio della “primavera araba” del 2011. E quindi esse ne sono diventati oggettivamente gli “intermediari non statali”, gli “agenti” che ne perseguono gli interessi sul territorio, secondo le regole non scritte della cosiddetta “proxy war theory”.
Per dirla più semplice, il burattinaio è stato Erdogan e sarebbe strano se non continuasse a esserlo. La prova di questo ragionamento ce la fornisce Valeria Giannotta, direttrice scientifica dell’Osservatorio Turchia del Cespi (Centro italiano di studi di politica internazionale), docente universitaria a Istanbul, Gaziantep e Ankara, grande esperta delle dinamiche turche e brillante divulgatrice (Ndr. nella foto sotto)
Non era scontato – sostiene la studiosa – che i nuovi padroni della Siria vincessero, non incontrando praticamente nessuna resistenza. Se è accaduto è perché qualcosa è andato storto nei rapporti del Sultano con il rais di Damasco.
Siria e Turchia: riannodiamo i fili dell’analisi
La Turchia, che occupa militarmente in Siria una striscia di territorio a Nord di Aleppo, visti i tempi incandescenti in tutta la regione mediorientale, fra guerre vere (quella di Israele a Gaza e in Libano) e temute (la reazione dell’Iran), ha interesse a mantenere la sua influenza nella zona, non fosse altro che per garantirsi un’area cuscinetto a sicurezza dei suoi confini. Questa area in realtà è turca a tutti gli effetti: vi circola la moneta turca, le utenze elettriche e telefoniche sono allacciate alla rete turca, nelle scuole i libri di testo sono in turco.
È verosimile immaginare – spiega Giannotta – che Erdogan abbia chiesto ad Assad una sorta di via libera per rimanere ufficialmente in quell’area in cambio dello stop ai miliziani che nel frattempo si erano messi in marcia.
Ed è altrettanto verosimile, visto come sono andate le cose, che Assad non ne abbia voluto sentir parlare, contando probabilmente sull’appoggio di Putin, il suo principale protettore, per fermare le mire del turco. Senza accorgersi che i tempi erano del tutto mutati e che la Siria era uscita dall’orizzonte politico dello zar, interessato ormai molto di più a intessere i fili per chiudere il dossier Ucraina, al fine di uscire da quel pantano il meno ammaccato possibile.
E sicuramente l’astuto Erdogan, che in questi anni di guerra si è ritagliato il ruolo di mediatore fra Mosca e Kiev, gli potrà essere utile al momento di schierare amici e nemici.
La Siria e l’ipotesi dell’enclave russa
Secondo questo ragionamento Putin avrebbe fatto buon viso a cattivo gioco nel confronto con Erdogan, lasciando la Siria senza combattere e portandosi via anche l’ingombrante ex dittatore. Una sorta di: “Ti lascio fare Recip, ma mi devi un favore”.
Perché è vero che Putin non ha fatto una bella figura, umiliato dalla facilità della vittoria dei ribelli, ma appare altrettanto chiaro che oltre la faccia non è disposto a perdere altro.
Pensiamo alle basi militari che Mosca occupa in Siria, quella navale di Tartous, sulla costa mediterranea, e quell’aerea di Khmeimim, non lontano dalla città portuale di Latakia. Anzi è probabile che ci sia stato anche questo nello scambio con Erdogan e, tramite lui, con i nuovi arrivati, i quali, d’altronde, si sono subito affrettati a dichiarare che le basi di Mosca non sarebbero state toccate.
E c’è un altro ragionamento che i turchi stanno facendo in queste ore di cui già si vedono gli effetti, e riguarda i quattro milioni e passa di immigrati siriani che sono stati accolti nel Paese in seguito alla guerra civile. Anche grazie agli accordi con l’Europa (Eu-Turkey Joint Action Plan, 2016) che ha pagato Ankara (6 miliardi di euro) perché se li tenesse. Accordi sottoscritti di nuovo nel 2020, ma di cui Erdogan farebbe a meno perché – come ci ricorda Giannotta – la questione immigrazione rappresenta una mina vagante per il governo turco (e non solo) tanto che lo scorso anno ha tenuto banco per tutta la campagna elettorale. Ora, caduto il regime siriano, c’è la concreta possibilità che i profughi rientrino a casa, cosa che già sta accadendo e che Erdogan sta agevolando.
E l’enclave curda? La questione in questo caso è più complessa. Intanto parliamo del secondo gruppo etnico più numeroso in Siria dopo gli arabi, più o meno 4 milioni di persone, distribuite nel nord del Paese, ma anche nei dintorni di Aleppo e Damasco. Costretti alla fuga o a prendere le armi in seguito alla politica di “arabizzazione” del governo siriano (anni ’60), che intendeva rendere omogeneo il gruppo etnico nazionale, i curdi da anni sono alla ricerca del loro posto al sole. Lo fanno in Siria, ma anche in Irak, in Iran e in Turchia, dove le politiche di omogeneizzazione delle popolazioni sono state le stesse.
In Siria i curdi un posto lo hanno (quasi) trovato
Si chiama “Amministrazione Autonoma della Siria del Nord-Est”, regione autonoma de facto, nota anche come “Rojava”, che in lingua curda significa “Occidente”, forse perché sono principalmente gli Usa e gli occidentali a garantirne l‘esistenza. La data della sua istituzione è il 21 marzo del 2014, ma in realtà “Rojava”è nata a partire dal 2012, inizialmente in aree a maggioranza curda, mentre esplodeva la guerra civile e lo Stato islamico occupava gran parte della Siria del Nord-Est; poi, scacciando le milizie dell’Isis, allargandosi anche in zone occupate da arabi, assiri e turcomanni. Come tutti ammettono, è anche grazie a loro che lo Stato islamico in Siria è stato sconfitto: saranno ricompensati? O abbandonati anche stavolta come è accaduto dopo le guerre irachene?
Siria, come rientra in gioco il ruolo della Turchia
“Yekineyen Parastina Gel”, cioè “Unità di protezione militare”, attore che viene percepito da Erdogan come un avamposto del partito comunista, il Pkk, nemico del passato e del presente.
Ma in Medioriente niente è per sempre. Per esempio proprio in Turchia sta avvenendo qualcosa di imprevedibile fino a qualche tempo fa e che potrebbe portare a grandi cambiamenti, a Damasco come ad Ankara.
Tutto è iniziato – è il racconto di Giannotta – il 22 ottobre scorso, quando Devlet Bahçeli, segretario generale del partito nazionalista (Mhp), dal podio del parlamento, ha invitato il leader e fondatore del Pkk, Abdullah Öcalan, a dichiarare la fine della lotta armata. Öcalan, lo ricordiamo, è da 25 anni incarcerato, unico detenuto, nell’isola-prigione di Imrali, nel mar di Marmara. Un discorso storico quello di Bahçeli perché è uno dei politici più influenti del paese, un uomo di destra, che non si espone per mere ragioni di convenienza politica.
Ciò significa che a Ankara si intende tornare al tavolo delle trattative con i curdi dopo anni di numerosi fallimenti. Perché accade? Perché la Turchia ha paura della grave instabilità politica della regione, provocata, come si sa, prima dall’attacco terroristico di Hamas del 7 ottobre dello scorso anno; e poi dalla spaventosa reazione dello stato israeliano, che ha esteso la guerra al Libano con attacchi mirati all’Iran.
Erdogan ha bisogno di pace prima di tutto dentro i suoi confini, e innanzitutto con i curdi, per far fronte a ogni evenienza. E per far ciò il ruolo di Öcalan è fondamentale. Accadrà sul serio? Impossibile dirlo, ma è vero che la storia in quella regione del mondo è a un incrocio importante, il che vuol dire che il cambiamento ha la stessa possibilità di riuscire dello stallo.
Insomma potrebbe accadere perfino che la nuova Costituzione turca che vuole Erdogan riconosca autonomia, identità, cultura e lingua dei curdi. Oltre che ovviamente, la possibilità per lui di ripresentarsi alle elezioni, come chiosa Giannotta. Sembra fantapolitica, ma chi può dire di avere la certezza che lo sia?