Il miglior modo per gestire i rifiuti è evitare che diventino tali. La proposta di un approccio davvero circolare (cioè rigenerare o riutilizzare un prodotto ancora prima che finisca del tutto il suo ciclo di vita) arriva da una riflessione del centro studi Ref Ricerche, che analizza la possibilità di un salto di qualità e di un vero e proprio cambio di paradigma: un rifiuto che sarà riciclato rimane infatti pur sempre un rifiuto, viene buttato in un cassonetto (apposito, si spera), trasportato fino alla discarica, e poi lavorato e riconvertito. Tutti questi passaggi si possono evitare, anticipandoli. “Al vertice della cosiddetta “gerarchia dei rifiuti” (e dunque tra le opzioni preferibili) – spiegano gli studiosi di Ref – riuso e preparazione al riutilizzo non hanno finora goduto di grande considerazione. Collocandosi in una sorta di “terra di mezzo” tra il mondo dei rifiuti e quello dei non rifiuti, hanno sofferto la mancanza di regole chiare, carenza di capacità organizzative e imprenditoriali, per finire relegate al ruolo di comprimarie”.
Eppure, oltre all’indiscutibile vantaggio pratico di questo approccio, il riuso o la rigenerazione creano anche le migliori condizioni per, ad esempio: incentivare l’innovazione, contribuendo a ridurre l’uso di materie prime vergini; contribuire ad allungare l’utilità economica dei prodotti e dei servizi; generare occupazione e riposizionare competenze e know-how verso produzioni alternative. Per non parlare poi dei benefici ambientali ed economici del mercato della “seconda mano”: la compravendita di oggetti usati ha raggiunto nel 2019 quota 24 miliardi di euro (l’1,3% del PIL), di cui 10,5 attraverso l’online, mentre secondo i calcoli dell’Istituto Svedese di Ricerca Ambientale (IVL) i soli acquisti effettuati sulla piattaforma Subito.it (una delle più utilizzate) nel 2017 hanno consentito di evitare 4,5 milioni di tonnellate di CO2. Non solo. Il mercato dell’usato in conto terzi muove circa 850 milioni di euro l’anno e riguarda circa 3mila iniziative stabili, mentre il segmento che impiega più persone è quello dell’ambulantato: un settore questo difficile da censire, che a volte è solo un hobby ma che intanto coinvolge circa 50mila micro-attività, con una stima di 80mila addetti.
Una grande spinta potrebbe arrivare dallo scambio online. Una recente indagine di ISPRA ha messo in luce come solo nel 24% dei Comuni italiani esaminati vi siano presenti mercatini dell’usato, punti di scambio e/o centri per il riuso. Una quota esigua e fortemente disomogenea (concentrata al Nord). In compenso già da decenni sono nati e cresciuti colossi del commercio di seconda mano online, come eBay che è quotato al Nasdaq, ma anche gli stessi social network come Facebook, che dal 2016 ha introdotto un marketplace che coinvolge tutti gli utenti. Tra queste soluzioni innovative c’è anche una app italiana, Depop, piattaforma di shopping peer-to-peer fondata nel 2011 nell’incubatore veneto H-Farm e ora diventata britannica con sede a Londra. Oltre alla rivendita però, c’è anche il remanufactoring, ovvero la riparazione, la rigenerazione, il rinnovamento vero e proprio del ciclo di vita di un prodotto che non viene più buttato o rivenduto così come è, ma magari deassemblato e ricomposto: in questo caso il valore aggiunto è il risparmio di materia prima, a vantaggio dell’investimento su una forza lavoro specializzata.
Questa è forse la sfida più interessante, perché oltre al beneficio ambientale e alla possibilità – come nel riuso – di generare nuove transazioni commerciali (a prezzo inferiore per i consumatori), c’è la creazione di occupazione, considerando che il remanufacturing è una attività ad elevato tasso di manodopera, che può permettere di
recuperare parte della disoccupazione originata dalla delocalizzazione produttiva e dall’automazione. Non a caso, secondo gli scenari ricostruiti dallo European Remanufacturing Network (ERN), il remanufacturing alimenta un mercato che in Europa vale circa 30 miliardi e che potrebbe crescere fino a 100 miliardi entro il 2030, un volume già raggiunto negli USA. In termini di settori, l’automotive e il settore della costruzione di macchine industriali rappresentano, ciascuno, circa il 30% del mercato del remanufacturing, il resto si ripartisce per un 27% agli apparecchi elettrici ed elettronici, per un 7% alla componentistica per automezzi pesanti e fuoristrada e un 3% sia all’aerospazio che alle forniture tecnologiche in genere. Lo stesso ERN stima che la rigenerazione consente di risparmiare tra il 60 e l’80% del valore dei prodotti nuovi, soprattutto in termini di minori costi di materie prime, energia, trasporto, distribuzione, etc.
Insomma un’opportunità davvero difficile da non cogliere, ma come farlo? Gli autori dello studio si addentrano nelle questioni normative (c’è infatti differenza tra riutilizzo, che attiene ai rifiuti, e riparazione o remanufactoring, che attengono ai prodotti), sostenendo che “le principali leve che potrebbero favorire la diffusione della prevenzione e del riutilizzo in Italia sono tre: il nuovo Piano d’Azione per l’Economia Circolare, promosso dalla Commissione Ue; il nuovo Programma Nazionale di Prevenzione dei Rifiuti, che il ministro per la Transizione Ecologica Roberto Cingolani dovrà redigere; e la regolazione ARERA nel settore dei rifiuti urbani”. Ma in Italia un primo passo avanti è già stato fatto: nell’ambito di Industria 4.0, il 28 maggio 2020 è stato deliberato dal MISE il decreto attuativo del Piano Transizione 4.0, che destina un credito di imposta del 10% alle attività oggetto di innovazione tecnologica finalizzate al raggiungimento di obiettivi di transizione ecologica.