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La sconfitta storica della Cgil alla Fiat nel 1955 e la conseguente autocritica sono una lezione che vale per il sindacato ancora oggi

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Settant’anni or sono, il 29 marzo del 1955 a Torino, per la prima volta, la Cgil fu messa, all’improvviso, in minoranza nelle elezioni per le Commissioni interne alla Fiat, perdendo non solo la maggioranza assoluta dei voti, ma anche il primato all’interno della più importante fabbrica italiana. I voti alla lista della Fiom-Cgil crollarono dal 65% al 36%; la Fim-Cisl salì dal 25% al 41% (poco tempo dopo, però, ebbe luogo la scissione del Sida); la Uilm-Uil dal 10% al 23%. La sconfitta era certamente determinata dal clima di dispotismo e di ricatti padronali instaurato alla Fiat e in molte altre aziende (nella fabbrica torinese si verificò persino il caso di un lavoratore licenziato con l’esplicita motivazione del “perché comunista” che fece molto discutere anche sul piano giuridico).

E non era propaganda: al Congresso del febbraio 1956, la Cgil denunciò che erano stati licenziati, durante l’anno precedente, 674 membri di commissioni interne, 1.128 attivisti e di migliaia di lavoratori, colpevoli di aver sostenuto le posizioni del sindacato. Giuseppe Di Vittorio, allora leader della Cgil intuì che anche la più dura delle repressioni non giustificava una sconfitta tanto netta e inattesa. Su suggerimento di Vittorio Foa, Di Vittorio invia a Torino un giovane ricercatore del quale negli anni a seguire si sentirà parlare molto: Bruno Trentin, il futuro segretario generale della Fiom e poi della Cgil, il quale curò un rapporto, in collaborazione con i dirigenti della Camera del lavoro torinese, che fu decisivo per cambiare la strategia della Cgil e l’orientamento del vertice sindacale, ponendo al centro i problemi relativi alle condizioni e alla organizzazione del lavoro.

I cambiamenti nella dirigenza della Cgil

Di Vittorio cambiò il gruppo dirigente; giubilati il comunista Giovanni Roveda e il socialista Dalla Motta, fece nominare subito Vittoria Foa ed Agostino Novella, come nuovi segretari della Fiom. Poi lo stesso Di Vittorio nella «storica» riunione del Comitato direttivo della Cgil del 26 aprile condusse un’analisi coraggiosa denunciando le intimidazioni, le rappresaglie e i licenziamenti che avevano annichilito la classe operaia (fin da 1952 la Cgil aveva rivendicato l’approvazione di uno Statuto dei lavoratori proprio in chiave antidiscriminatoria). Ma oltre a tali elementi – che pure pesavano – il leader della Cgil – ovviamente non erano elaborazioni di carattere personale, ma il frutto di un dibattito serrato all’interno del gruppo dirigente – si interrogò sugli errori della Fiom e sul suo distacco dalla realtà delle fabbriche che stavano diventando sempre più moderne e caratterizzate da specificità non raccolte dalla contrattazione interconfederale e nazionale di categoria.

Un monito attuale e il fallimento di una politica sindacale miope

Val la pena di ricordare le sue parole, pronunciate settant’anni or sono, ma di una modernità sconcertante, perché, mutatis mutandis, sono valide anche oggi, in presenza della grande trasformazione che si annuncia: «Il progresso tecnico e la crescente concentrazione monopolistica dei mezzi di produzione, accentuano continuamente queste differenze, determinando condizioni di vita e di lavoro estremamente differenziate fra vari gruppi di operai anche in seno alla stessa azienda. Il fatto che la Cgil – proseguì Di Vittorio – sottovalutando questo processo di differenziazione, abbia continuato negli ultimi anni a limitare la sua attività salariale quasi esclusivamente alle contrattazioni nazionali di categoria e generali, è stato un grave errore […]. La situazione oggettiva ci obbliga – concluse – a far centro della politica salariale la fabbrica, l’azienda». Allora, le parole avevano un peso. L’ammettere ex cathedra di aver compiuto un «grave errore» colse di sorpresa centinaia di quadri (quando sarebbe stato molto più semplice e meno dirompente prendersela, al solito, con i padroni e il governo, come fa adesso Landini). In una intervista di Vittorio Foa pubblicata sul saggio di Andrea Stuppini “Il revisionismo socialista” (Mondoperaio 1981), il grande sindacalista denuncia un modo di portare avanti una politica sindacale sbagliata in collegamento con una politica tout court anch’essa fallace, come emergerà nel 1956 con l’invasione sovietica dell’Ungheria.

“Allora, secondo me, c’era davvero l’idea che il cambiamento viene da fuori, viene dall’est, e che quindi la condanna dell’est, significava la condanna del cambiamento. Il processo di trasformazione è venuto, ma è venuto lentamente. Il processo di destalinizzazione comporta, però, un’importante conseguenza: il rinnovamento dell’analisi del capitalismo. Se io ad un certo punto smetto di vedere il capitalismo come eternamente in crisi, eternamente sull’orlo del tracollo e della catastrofe, bisognoso solo o di un colpo decisivo per abbatterlo definitivamente o di stampelle per continuare a camminare, se io dunque, vedo ad un certo punto che il capitalismo cammina e si sviluppa, in chi ha sempre detto che il capitalismo era malmesso, sopravviene una specie di timore che il riconoscere che quelli sono bravi e sanno farcela, comporta l’accettazione di ciò che il capitalismo appunto fu”.

Il fallimento della sinistra nella comprensione del “miracolo economico”

In sostanza, in quegli anni la sinistra politica e sindacale, non aveva compreso quei processi di crescita e sviluppo che presero il nome di “miracolo economico”. La mancata sensibilità rispetto ai reali fenomeni dello sviluppo: passaggio dall’autarchia fascista all’apertura degli scambi economici e commerciali, forte espansione dell’industria manifatturiera nel triangolo industriale, urbanizzazione a tappe forzate concentrata nelle grandi metropoli settentrionali, accentuazione del dualismo economico – sociale tra aree avanzate e, aree arretrate, tra Nord e Sud, impediva alla sinistra di liberarsi dei vecchi pregiudizi del “capitalismo straccione” e di esprimere una corretta valutazione del ruolo dello Stato. Sempre nel saggio ricordato è contenuta una citazione di Riccardo Lombardi che potrebbe riferirsi alla Cgil di oggi. “Io ricordo – racconta Lombardi – una visita mia e di Silvio Leonardi alla Camera del lavoro di Milano la cui commissione economica aveva preparato un’analisi della situazione presentata in termini catastrofici. Quando uscimmo dalla riunione Leonardi mi disse: ma non si guardano attorno, non vedono che nascono fabbriche, case? La verità è che uno sviluppo, disordinato quanto vuoi, c’era e stava trasformando il paese”. Una testimonianza sincera che, rende il quadro di un’epoca, come resa da Riccardo Lombardi; una delle poche eccezioni, soprattutto in campo socialista, in un quadro generale di conformismo e superficialità”.

Superare il dogmatismo: il futuro del movimento operaio

E aggiungeva Foa in un articolo su Mondoperaio: “grave è l’errore degli amici, dei compagni, che deridono il “nuovo” come un’invenzione propagandistica dei monopoli, e accusano i compagni “innovatori” di fare il gioco dei gruppi dominanti. La verità è l’opposto. Sono proprio i dogmatici, i fossili del movimento operaio, ciechi alla nuova materia operativa del gruppo dominante e al suo strumento d’azione, sono proprio questi conservatori che contribuiscono al nuovo riformismo operaio, alla nascita di aristocrazie operaie “integrate” nella politica padronale, alle difficoltà crescenti delle masse popolari. La liquidazione del dogmatismo è oggi una condizione assoluta per combattere efficacemente il potere padronale.”

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