«2021, l’odissea dell’economia verso il lieto fine», titolavano le Lancette di inizio anno. Oggi è possibile confermare quel giudizio, con un doppio caveat. Da una parte, la recessione da virus ha cambiato le risposte tradizionali alle crisi; all’interno dei Paesi i settori normalmente meno ciclici – i servizi – sono stati più colpiti rispetto all’industria. All’esterno dei Paesi, là dove normalmente la crisi colpiva in modo meno duro – i Paesi emergenti – questo schema è stato confermato, grazie alla Cina, ma grosse fette di emergenti – i Paesi sudamericani e caraibici – hanno fatto peggio delle economie avanzate, a differenza di quel che successe con la Grande recessione.
Ormai fra i famosi ‘fondamentali’ delle economie – emerse o emergenti – bisognerà mettere anche la coesione sociale e il rispetto delle regole: qualità, queste, che spiegano molto delle diverse risposte delle economie del pianeta agli urti del Covid-19. Certamente, il rispetto delle regole dipende anche dall’autoritarismo, ben diverso dall’autorevolezza della leadership (merce sempre più rara). È più facile farle rispettare quando le autorità nascondono nodosi randelli dietro l’invito al “rispetto”.
C’è da tempo un’altra ordalia fra Oriente e Occidente, una sfida fra il modello capitalistico-liberale occidentale e il modello autoritario-eterodiretto incarnato dalla Cina. Sia nella crescita dell’economia che nel contrasto al virus il secondo ha fatto meglio. È vero, ci sono molte potenti e convincenti ragioni per non farsi abbindolare dai vantaggi dell’autoritarismo. Ma non c’è dubbio che, nella mente di molti, il modello cinese ha guadagnato terreno.
Gli indicatori più tempestivi – in Europa, in Italia e specialmente in America – dicono che siamo sulla buona strada nell’uscita dalla crisi economica da pandemia. Ma il virus non è sconfitto. I contagi rallentano nelle economie avanzate (dopotutto, le restrizioni servono a qualcosa, con buona pace degli ‘aperturisti’), ma continuano altrove, e, a livello mondiale, c’è una recrudescenza, spinta dalle varianti più contagiose.
Il pericolo è quello di sempre: i progressi nei contagi spingono ad allentare, e gli allentamenti portano a nuovi contagi, con una coazione a ripetere quel ping-pong fra allentamenti e restrizioni già datosi in passato. Ne usciremo solo con una decisa accelerazione nelle vaccinazioni, seguendo l’esempio di Gran Bretagna e Stati Uniti, dove la percentuale di popolazione vaccinata sfiora il 50% nella prima e supera un terzo nei secondi (l’Europa continentale sta sul 15%, mentre a livello mondiale, la percentuale è ancora molto bassa, sul 5%).
L’inflazione, a parte fattori temporanei (aumento dell’Iva in Germania e cambiamenti nei panieri dei prezzi in Europa) non dà segni di rialzo. E quand’anche ci fosse un rialzo (qualche pressione in più è prevedibile, se non addirittura auspicabile) è improbabile che sia tale da cambiare le attese. Perché le pressioni sui prezzi diventino permanenti bisogna che compratori e venditori (e fra questi ci sono anche i compratori di lavoro – le imprese – e i venditori di lavoro – i lavoratori) siano convinti che l’inflazione è alle porte; e bisogna che la domanda – domanda di beni, di servizi e di lavoro – sia forte e crescente. Nessuna di queste due condizioni è soddisfatta al presente.
Ed è bene ricordare quel che abbiamo già detto ad abundantiam. Sia consentito citare le ultime Lancette: “si continuano a sottovalutare i potenti fattori strutturali – diversi dalla domanda e dai costi – che tengono un coperchio sui prezzi. Fattori che vanno dalla globalizzazione all’immigrazione, dalle vendite online ai mille modi – molti in atto e molti ancora in potenza – che consentono alla rivoluzione digitale di trovare metodi più economici per produrre beni e servizi”.
Materie prime e petrolio, che avevano dato netti segnali di risveglio nell’ultimo mese, di seguito alla ripresa del manifatturiero, non sono stati infastiditi dalla breve chiusura del canale di Suez, e non danno segni di ulteriori rialzi. La magia della domanda e dell’offerta è sempre lì. È vero, la domanda di materie prime aumenta, ma così l’offerta.
I tassi a lunga si mantengono su livelli in media leggermente più elevati rispetto ai mesi scorsi, ma non danno segnali – come del resto, abbiamo appena detto, non li dà l’inflazione – di continuare la risalita. Il ministro delle Finanze filippino ha detto che loro si accingono a emettere obbligazioni in dollari prima che i tassi schizzino verso l’alto. Il Segretario al Tesoro Usa, Janet Yellen, ha detto che le condizioni monetarie rimarranno favorevoli alla ripresa, e il presidente della Fed Powell ha fatto dichiarazioni da colomba spinta sulla continuazione del QE (come del resto ha fatto, sull’altra sponda dell’Atlantico, la Lagarde). I rendimenti dei T-Bond, che avevano superato 1,7%, si sono riportati sotto quel livello (per mettere le cose in prospettiva, ricordiamo che a fine 2019, subito prima del virus, i T-Bond segnavano 1,9%). Decisamente, i mercati sembrano credere più a Yellen & C. che al ministro delle Finanze filippino. I rendimenti di Bund e BTp sono poco variati rispetto al mese scorso, e lo spread continua a oscillare intorno a quota 100.
Le condizioni monetarie rimarranno favorevoli alla ripresa, si è detto. E questa affermazione, che è allo stesso tempo una constatazione e un proponimento, è confermata dai tassi reali che, per T-Bond, BTp e Bund si mantengono sullo zero o sottozero. Se la ripresa non proseguirà, non sarà certo per colpa del credito: sia la disponibilità che il costo non sono di ostacolo.
Per i cambi, i fondamentali sembrano favorire il dollaro, sia per il differenziale di crescita che per il differenziale dei tassi, nominali o reali. Ma anche qui non c’è materia per cambiamenti bruschi. Contro euro il cambio aveva flirtato con quota 1,17, ma ora si è riportato vicino a 1,19. Sembra quasi che i mercati abbiano altre cose cui pensare e lascino tranquilli i cambi. Forse un po’ meno tranquillo è il cambio dello yuan: nulla succede per caso nella moneta cinese e fattori geopolitici possono spiegare la punzecchiatura di un leggero deprezzamento dello yuan.
I mercati azionari rimangono sul bello stabile, e non si vede – a parte brevi correzioni – come il tempo possa volgere al brutto. Le economie sono chiaramente in ripresa, la seconda parte dell’anno sarà nettamente migliore della prima – grazie alle politiche espansive e al ‘sacro calice’ dell’immunità di gregge – e le alternative all’investimento azionario non sono particolarmente attraenti. I rendimenti delle obbligazioni, come detto, rimarranno bassi, gli outflow dai fondi ETF aurei continuano e il Bitcoin è attraente solo per gli amanti degli sport estremi.