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La ricetta di Salvatore Giugliano, la Menesta mmaretata di Mimì alla ferrovia come una volta

minestra maritata dello chef salvatore giugliano di Mim,ì alla Ferrovia

Per i napoletani è il piatto d’obbligo delle feste natalizie ma anche di quelle pasquali. Per gli altri è un nome astruso che incute anche un po’ di soggezione. È ‘a Menesta ‘mmaretata, ( minestra maritata) così soprannominata perché celebra un antico matrimonio culinario fra carne e verdura, o meglio fra una infinità di carni e una infinità di verdure, canonizzate nei secoli.

A dire il vero anche se è un piatto iconico della tradizione gastronomia napoletana la menesta mmaretata ha origini spagnole. Reinterpreta la Olla Podrida, altro nome poco rassicurante, introdotta nel Regno di Napoli dalla dominazione aragonese. Olla Podrida letteralmente sta per pentola marcia, ma nel caso specifico il nome lo si fa derivare dal termine “poderida”, che vuol dire poderosa. Il perchè è presto detto: si tratta di uno stufato originario della cucina spagnola presente già nella gastronomia del Medioevo, e classificato all’interno della famiglia dei bolliti. Un miscuglio composto di ingredienti eterogenei, legumi, pezzi di carne, spezie varie, tipico della cucina spagnola.

Ma Poderosa anche perché ricca di ingredienti che davano molta forza per questo la Olla era riservata solo ai nobili durante le feste – tradizione poi importata anche a Napoli – mentre il popolo non poteva andare oltre una semplice minestra con le verdure povere di campo.

La minestra maritata che mangiamo oggi è un lontano ricordo del ricco e, per la verità, pesante minestrone spagnolo la cui variante napoletana fu definita non a caso dal gastronomo Ippolito Cavalcanti Duca di Buonvicino “o pignato grasso”.

Resta un piatto complesso per i diversi ingredienti canonici imposti dalla tradizione. Sei le verdure obbligatorie: broccoli di rape, broccoli di foglie, cicorielle (piccole cicorie), torzelle ( note anche come “cavolo greco” o “torza riccia”, una pianta presente soprattutto nella zona dell’Acerrano Nolano, in provincia di Napoli), cappucce e scarolelle alle quali qualcuno aggiunge anche la borragine E tre i differenti tipi di carne: manzo, pollo e maiale. Ma per quanto riguarda quest’ultimo tradizione vuole che se ne usino ben sette varianti: uoss’ ‘e prosciutto, cotiche, mascariello (guancia) vuccularo (una parte del muso), lardo, nnoglie ( salame pezzente), tracchie (le costine) e verrinia.

Un matrimonio dunque molto impegnativo per l’officiante, il cuoco o la massaia, che deve districarsi fra tutti questi ingredienti per sublimarli in una minestra dai mille aromi e sapori e soprattutto di facile digestione.

Per proporre una versione light del vecchio “pignato grasso” abbiamo optato per la ricetta di uno dei ristoranti storici della tradizione gastronomica napoletana, Mimì alla Ferrovia. Un ristorante nato nel settembre del 1944, ad opera di Emilio Giugliano chiamato Mimì e sua moglie Ida, a un anno di distanza dalle gloriose Quattro giornate di Napoli, l’insurrezione popolare che valse alla città, prima fra le grandi città europee a insorgere contro le truppe naziste, il conferimento della medaglia d’oro al valor civile.

Quella trattoria alla buona nata come un atto di fiducia nel ritorno alla normalità del paese, ancora in piena guerra, ( e questo dovrebbe far meditare più di uno che lamenta le condizioni del presente ) col tempo è diventata una delle icone classiche della ristorazione napoletana. La vicinanza al teatro Odeon, alla stazione, al Porto marittimo, all’imbocco del raccordo per le autostrade. al Tribunale ha fatto sì che questo locale, sia diventato ben presto un punto di riferimento per i napoletani e per chi arrivava a a Napoli per lavoro o per turismo che sapevano di trovare da Mimì alla Ferrovia una accoglienza ed un ambiente carico di tutto il calore che i napoletani sanno esprimere ma anche la genuinità di una cucina che si andava affermando nel mondo secondo i principi della dieta mediterranea. “L’Italia passa per Mimì” amava ripetere con un largo sorriso di soddisfazione Michele Giugliano per la notorietà raggiunta in breve dal suo ristorante di Via Alfonso D’Aragona. Non era una vanteria ma una constatazione di fatto come attestano le centinaia di foto che occupano tutte le pareti del ristorante e che si snodano come una lunga storia dell’Italia che conta attraverso gli anni.

A guidare la cucina oggi è l’ultima generazione della dinastia dei Giugliano, Salvatore, un ragazzo sorridente, che si esprime con timido e piacevole garbo che perde però davanti ai fornelli dove lo Chef si muove con la sicurezza e la padronanza acquisita in rapidi intensi anni di studio e di passione. Ha percorso tutti i gradini dell’impresa di famiglia. Praticamente è nato nel ristorante, poi ha deciso di farsi le ossa in giro passando al vaglio di alcuni fra i grandi maestri della cucina stellata napoletana dove ha potuto fare esperienze importanti per la sua formazione. A cominciare da Paolo Barrale lo chef che per 14 anni ha guidato il Ristorante “Marennà” ai Feudi di San Gregorio, per proseguire alla corte di Tonino Mellino, patron del pluristellato del Quattro Passi nella baia di Nerano nella penisola sorrentina, La successiva esperienza al Faro di Capo d’ Orso con lo chef Franco Ferrara gli ha fatto allargare lo sguardo alle tecniche di ispirazione francese. Di qui si sposta a Ischia,

Lì c’è Nino Di Costanzo, due stelle Michelin, un padre spirituale della cucina tradizionale napoletana, capace di portare la cucina popolare napoletana a livello di poesia, recentemente considerato da Forbes uno dei 10 ristoranti cool al mondo . Con tanta scuola il giovane Salvatore sarebbe pronto per tornare all’ammiraglia di famiglia. Ma non lo fa, C’è ancora da innalzare il livello di conoscenza a nuove tecniche di cottura e di trattazione della materia. E per questo lo Chef se ne va in Giappone per un “percorso umano e professionale” come dice lui ma soprattutto per approfondire l’approccio con una cucina che punta all’essenziale, alla intimità del significato della materia prima, a una rarefazione dell’aspetto più immediato del gusto perchè questo venga percepito da tutti i sensi. Ed ora eccolo ai fornelli di Don Mimì da dove ci regala la ricetta della Menesta mmaretata, per fare un salto nella storia e negli antichi sapori di un popolo.

La ricetta della minestra maritata dello Chef Salvatore Giugliano

Ingredienti:

6 scarole lisce piccole
6 bietoline
6 borragine
3 torzelle
1 cavolo verza
pecorino romano a cubetti
1 osso di prosciutto
600 gr cappello del prete
600 gr gallina
300 gr salsicce
3 sedano
2 carote

Pulire la gallina dalle interiora accuratamente e tagliarla a metà. Tagliare il cappello di prete a cubi. lo stesso per il sedano e le carote.

Aggiungere il tutto in un pentolone con acqua fredda,un mazzetto di erbe aromatiche l’osso di prosciutto e le salsicce. lasciar cuocere il brodo per circa 4 ore sgrassandolo con una schiumarola durante la cottura.

Sbianchire le verdure in acqua bollente e raffreddare in acqua e ghiaccio in modo da tenerle di un colore lucido e croccanti.

Quando il brodo sarà pronto alzare le carni e filtrare con uno chinoix a maglia fine coperto da un panno.

tagliare le salsicce a rondelle, disossare la gallina e porre tutto in una pentola insieme alla verdura e alla carne di manzo.

Portare a temperatura e servire in un piatto fondo con i cubetti di pecorino romano.

La menesta mmaretata a Napoli ricorre anche per le festività di Pasqua.

Salvatore Giugliano del ristorante Mimì alla Ferrovia propone una seconda versione con le verdure di stagione. Eccola:

Un osso di prosciutto
250g di cotiche di maiale
250g di cotechino o salame
300g di polpa di maiale
3 salsicce
150g di lardo
sale
500g di broccoli
400g di broccoletti
1kg tra scarola e cicoria
500g di insalata cappuccina

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