Avvicinandosi la Pasqua cristiana arriva anche la settimana di Pesach (quest’anno dal 19 al 27 aprile), la festa con cui gli ebrei ricordano il ritorno dalla schiavitù in Egitto. In questa settimana l’unico pane che si può mangiare è quello azzimo, non lievitato, in memoria dei profughi che solo di esso potevano nutrirsi, guidati da Mosè nella fuga dall’Egitto. A Pesach il lievito è bandito e le torte non possono crescere, perciò non si può dire a nessuno di aspettare a dividere la torta fino a quando essa sia lievitata, permettendo a ciascuno di avere un po’ più di torta senza toglierne agli altri. Da un anno a questa parte l’Italia sembra precipitata in un Pesach senza fine. La narrazione governativa verte essenzialmente su politiche redistributive (quota 100, reddito di cittadinanza), senza preoccuparsi del fatto che queste politiche generano incertezza – anche perché finanziate con crescente disavanzo pubblico – e tolgono il lievito all’economia italiana azzerandone la crescita.
È vero che l’Italia ha problemi di disuguaglianza e di una crescente fascia di povertà, ma se azzeriamo quella crescita già anemica che avevamo sarà ancor più difficile risolvere quei problemi. La narrazione governativa sembra basarsi su un approccio che ignora il contributo che la crescita dà al benessere collettivo. Nelle politiche verso l’esterno pare prevalere una visione mercantilista in cui non si riconosce che il commercio tra Paesi costruisce ricchezza per tutti quanti. In quelle interne domina il condizionamento di distribuire fette della torta non lievitata.
Queste visioni statiche, anziché dinamiche, della società sono in vario modo dannose per la crescita, finendo per costruire sfiducia nel futuro. La crescita, infatti, nasce dall’investimento che si concretizza quando c’è qualcuno disposto a rischiare e che riesce a ottenere le risorse finanziarie per sostenere quell’investimento, che spesso promuove l’innovazione. Invece, le politiche redistributive finanziate in deficit del governo accrescono l’incertezza. Infatti, ad esempio, aggravano il debito pubblico già così elevato da rischiare il declassamento dell’Italia a rating “spazzatura” (cioè sotto la BBB-) e, avendo provocato un autoinflitto aumento dello spread, mettono in difficoltà le banche rendendole incapaci o indisponibili a finanziare imprese e famiglie. Tutto ciò induce una riduzione degli investimenti privati. E crescono meno di prima anche i consumi delle famiglie, le quali compensano la maggiore incertezza aumentando la propensione al risparmio.
Ha contribuito all’incertezza anche l’essersi a lungo ostinati a sostenere, come ha fatto il governo, che tutte le previsioni sulla crescita dell’Italia fatte da istituzioni interne e internazionali erano troppo basse, per poi dover riconoscere nel DEF 2019 che a essere sbagliate per eccesso erano le previsioni di crescita proposte dal governo. E non hanno certo giovato gli atteggiamenti muscolari nei confronti della Commissione europea, fare la voce grossa con altri Paesi UE che dovrebbero essere nostri partner naturali, così come paventare repentini cambiamenti nella politica estera, sino ad arrivare allo “splendido isolamento” in cui sembra ci si ritrovi nella crisi libica.
I due pezzi forti di Palazzo Chigi obiettano che l’arresto della pur fiacca crescita economica nostrana è interamente ascrivibile al peggioramento della congiuntura internazionale. Lo argomentano anche improbabili esperti che rendono trash molti dibattiti televisivi. Così non è. L’indebolirsi della congiuntura internazionale pesa, ma non spiega tutto l’azzeramento della crescita. Il di più nella picchiata in basso del Pil italiano dipende dalle politiche redistributive finanziate in deficit. E queste sono scaturite dall’errata visione statica dei processi economici, i quali si basano invece essenzialmente su relazioni dinamiche in cui conta saper ridurre l’incertezza e accrescere il clima di fiducia.
Insomma, bisogna recuperare il lievito e far crescere la torta, se non vogliamo andare avanti solo a pane azzimo.