Come annunciato nell’articolo della scorsa settimana, torniamo sul tema dall’appropriazione culturale con un intervento importante che ha dato il tono a coloro che considerano questa idea un’aberrazione per le arti e la cultura. Lo è senz’altro se portata, a livello teorico e nella battaglia delle idee, oltre le sue legittime applicazioni fino alle sue estreme discutibili radicalizzazioni. Non esiste un padrone della cultura, magari se ci sono degli azionisti, questi potrebbero essere coloro che hanno creato i singoli elementi che sono andati a determinarla, ma nessuno può pretendere un diritto di proprietà sulla cultura di per sé. Parafrasando una famosa asserzione di Rousseau sui può dire che la libertà finisce e inizia qualcosa di molto meno ameno quando qualcuno crea un recinto e dice “questo è mio, non entrare o pagare per entrare”. E il concetto di appropriazione culturale fa proprio questo.
A voi Lionel Shriver
La nota scrittrice americana – oggi suddita di sua maestà britannica – ha un’attrazione fatale per i temi sensibili e pericolosi. Battezzata Margaret ha voluto cambiare il suo nome in Lionel, che, più della margherita, si adatta alla sua indole, in effetti, leonina. Già si inizia con un atto di appropriazione culturale! Da autrice dichiaratamente libertaria, femminista e iconoclasta non ha nessuna remora a scrivere, parlare e accapigliarsi su casi e temi controversi dei quali molto spesso non ha un’esperienza diretta. Altro atto di appropriazione culturale! Per questo motivo quel concetto la fa infuriare.
In un articolo sul “New York Times”, che la invitava a pronunciarsi politicamente, ha dichiarato: “A Londra mi considerano un ultra conversatrice. Quando volo a New York mi trasformo, senza avere mutato le mie opinioni, in una radicale di sinistra”. In effetti la Shriver è una sintesi perfetta tra il “Wall Street Journal” nelle faccende economiche e il “Guardian” in quelle dei diritti civili. Aborre ogni forma di regolazione in campo economico, odia le tasse, critica lo stato sociale e la riforma sanitaria, ma vuole decriminalizzare il suicidio assistito, la prostituzione e l’uso, non solo della marjuana, ma di tutte droghe. Difende la pornografia e soprattutto ha rotto i ponti con tutti i libertari antiabortisti, come Rand Paul (che avrebbe potuto essere la sua scelta in politica), così come con coloro che osteggiano il matrimonio tra persone dello stesso sesso. Sempre sul “New York Times” ha scritto: “Non sono l’unico americano costretto a votare ripetutamente democratico perché l’agenda sociale repubblicana è retrograda, se non addirittura lunatica – a costo di dare il mio involontario avallo a soluzioni ingannevoli e onerose ai problemi dell’America”.
Dal 1987 a oggi Lionel Shriver ha scritto 14 romanzi di cui 3 tradotti in italiano da Piemme. Al più famoso, … E ora parliamo di Kevin (2003), si sono aggiunti – da qualche mese in edizione italiana – I Mandible. Una famiglia, 2029-2047 (2016) e The Standing Chandelier (2017) un romanzo impietoso e duro sull’impossibilità dell’amicizia tra un uomo etero e una donna. Già in un precedente romanzo, The Big Brother, aveva esplorato un’altra impossibilità, quella di avere in famiglia un grande obeso e dover combattere tra la normalità e le conseguenze sia personali che sociali di quella condizione.
Gli organizzatori del Brisbane Writers festival (Australia) hanno invitato la Shriver a tenere il discorso di apertura dell’edizione del 2016 proponendole il tema “Fiction and Identity Politics”. Riportiamo di seguito la traduzione italiana di alcuni passi del discorso tenuto dalla Shriver l’8 settembre 2016, pubblicato in lingua originale dal “Guardian”. Buona lettura!
Il racconto della domenica, “Il grande obeso”, disponibile su FirstArte, è proprio di Lionel Shriver.
Il sombrero è un furto?
Bene! Iniziamo con una tempesta in un bicchiere d’acqua. Andiamo al Bowdoin College di Brunswick, nel Maine. All’inizio del 2016, due studenti hanno organizzato la festa di fine anno sul tema “Tequila per un amico”. I padroni di casa hanno offerto agli ospiti un sombrero, che è stato ampiamente indossato durante la serata.
Quando sono iniziate a circolare sui social media le foto del party, si è sollevata l’indignazione dell’intero campus. Gli amministratori hanno avviato un’indagine su questo “atto di stereotipizzazione etnica”. I partecipanti al party sono stati messi alla gogna, mentre i due organizzatori sono stati espulsi dal loro dormitorio e successivamente messi in stato d’accusa. Il giornale degli studenti di Bowdoin ha criticato la mancanza di “empatia” di tutti i partecipanti.
La morale dello scandalo del sombrero è chiara: non si devono indossare i cappelli degli altri. Eppure questo è quello che noi scrittori siamo pagati per fare, vero? Entrare nei panni degli altri e provare i loro cappelli.
Secondo l’ultima moda, che si è propagata in breve tempo ben oltre i campus universitari, qualsiasi tradizione, qualsiasi esperienza, qualsiasi costume, qualsiasi modo di fare e dire le cose associato a una minoranza o a un gruppo svantaggiato, è tabu. Guardare, ma non-toccare. Tutti coloro che sono inseribili in una vasta gamma di “identità” – etnie, nazionalità, razze, categorie sessuali e di genere, classi di sotto-privilegiati e disabili – sono incoraggiati a considerare la loro esperienza una proprietà intellettuale e a considerare i tentativi degli altri gruppi di prendere parte alle loro esperienze e alle loro tradizioni, sia in modo attivo che attraverso l’immaginazione, una forma di furto.
Quello che non sarebbe mai nato
Allora, se gli scrittori avessero rispettato il precetto di non toccare quello che appartiene a gruppi diversi dal loro, non avremmo Sotto il vulcano di Malcolm Lowry e non avremmo neppure la maggior parte dei romanzi di Graham Greene, molti dei quali sono ambientati in quelli che per il mancato premio Nobel inglese erano dei paesi stranieri, popolati da veri stranieri che parlano e si comportano come stranieri.
Nel suo capolavoro, Il passeggero inglese, Matthew Kneale avrebbe dovuto trattenersi dall’includervi capitoli scritti in lingua aborigena, sebbene siano proprio queste alcune delle parti più ricche e convincenti del romanzo. Se Dalton Trumbo si fosse fatto scrupolo nel descrivere la condizione di una persona intrappolata in un corpo senza braccia, gambe e volto, perché non era in quella condizione – Trumbo, infatti, non aveva combattuto nella Prima Guerra Mondiale, né tanto meno vi era stato mutilato e quindi non aveva l’esperienza diretta della condizione di isolamento di un paraplegico – non avremmo avuto l’inquietante classico del 1938, E Johnny prese il fucile.
Non avremmo nemmeno il capolavoro erotico contemporaneo di Maria McCann, As Meat Loves Salt – in cui una signora eterosessuale scrive di un amore omosessuale tra due uomini durante la guerra civile inglese. Anche se il libro è più saggistica che narrativa, vale la pena notare che non avremmo avuto neppure Black Like Me del 1961. Per scriverlo il giornalista bianco John Howard Griffin aveva commesso l’imperdonabile peccato di scurirsi la pelle per spacciarsi da uomo di colore. Avendosi però scurito la pelle – una sorta operazione Michael Jackson al contrario – Griffin aveva scoperto come viveva una persona di colore nell’ambiente segregazionista del sud. Oggi sarebbe stato escoriato, ma quel libro ha avuto un impatto sociale importante per il movimento dei diritti civili degli uomini di colore.
Chi possiede la cultura?
L’autrice di Who Owns Culture? Authenticity and Appropriation in American Law, Susan Scafidi, professore di legge alla Fordham University, che per la cronaca è bianca, definisce l’appropriazione culturale come “prendere senza permesso la proprietà intellettuale, le conoscenze tradizionali, le espressioni culturali o gli artefatti dalla cultura di qualcun altro. Questo può includere l’uso non autorizzato della danza, dell’abbigliamento, della musica, della lingua, del folclore, della cucina, della medicina tradizionale, dei simboli religiosi ecc. di un’altra cultura”.
Ciò che mi colpisce di questa definizione è l’espressione “senza permesso”. Come facciamo, noi scrittori di narrativa, a ricercare il “permesso” per usare un personaggio di un’altra razza o cultura, o impiegare la lingua di un gruppo al quale non apparteniamo? Che facciamo? Mettiamo una bancarella all’angolo di una strada e avviciniamo i passanti per ottenere il permesso di impiegare un personaggio indonesiano nel capitolo dodici?
Sono pertanto fiduciosa che il concetto di “appropriazione culturale” sia una moda passeggera una sorta di ipersensibilità transitoria: il contatto tra persone con background diversi, che si stropicciano l’una contro l’altra e si scambiano idee e comportamenti, è uno degli aspetti più fecondi e affascinanti della vita urbana moderna.
Questa stessa iper-sensibilità, però, sta arrivando anche in libreria. Domandiamoci: chi è l’appropriatore per eccellenza? È chi prende a prestito le voci, la lingua, i sentimenti e gli idiomi propri di altre persone. È chi mette letteralmente le parole in bocca a persone diverse da lui o da lei. È chi osa entrare nelle teste di estranei. È chi ha la faccia tosta di proiettare pensieri e sentimenti nelle menti degli altri, rubando i loro pensieri più intimi. È chi assorbe, come un bambino in un negozio di dolciumi, ogni vista, odore, sensazione o conversazione per potersi appropriare di quelle sensazioni. Chi è, insomma, questo professionista della rapina seriale? Chi è il primo borsaiolo delle arti? È Il narratore di storie, ecco chi è il ladro.
E ora parliamo di “autenticità”
Quella del romanziere, per sua stessa natura, è una vocazione irrispettosa, indiscreta, voyeuristica, cleptomane e presuntuosa. E queste sono proprio le caratteristiche della fiction al suo stadio più elevato. Quando Truman Capote raccontava storie dal punto di vista degli assassini e dei condannati a morte o da quello di una classe economica inferiore alla sua, aveva un bel po’ di fegato. Ma per scrivere storie ci vuole un bel po’ di fegato.
Per quanto riguarda l’ossessione della pulizia culturale e dell’”autenticità”, la fiction è di per sé inautentica. È falsa, è coscientemente e volutamente falsa. È proprio la falsità la natura di questa forma artistica che parla di persone che non esistono ed eventi che non sono ma accaduti. È vero, ma viene, però, da chiedersi quali possano essere le storie che appartengono davvero agli scrittori e quali siano i confini che delimitano il loro lavoro? Direi che qualsiasi storia che uno scrittore inventa è sua e tentare di superare i confini dell’esperienza personale fa parte del mestiere dello scrittore di romanzi. Spero che gli scrittori di romanzi gialli, ad esempio, non abbiano tutti un’esperienza personale di assassini e uccisioni, come vorrebbero gli assertori dell’”autenticità”. Io stessa, senza essere una serial killer, sono entrata nella mente di un folle omicida rappresentando la follia assassina in E ora parliamo di Kevin. Mi dispiace per i puristi, ma io non ho mai scoccato frecce che hanno ucciso sette bambini, un insegnante e un ausiliare in un liceo.
Ci inventiamo qualcosa, ci prendiamo dei rischi, facciamo qualche ricerca, ma alla fine si tratta ancora una volta di come possiamo farla franca – di come possiamo convincere, o meglio “ingannare”, i nostri lettori. Perché l’esito ultimo di tenere fuori le dita da un’esperienza che non ci appartiene è che quello di uccidere la fiction. Tutto ciò che rimane è un libro di memorie.
Il comma 22 della “autenticità”
Ed ecco il comma 22 della richiesta autenticità; ecco dove non possiamo davvero vincere. Nello stesso tempo in cui scriveremo solo delle nostre esperienza in nome dell’”autenticità,” verremo rimproverati di non aver rappresentato nelle nostre storie una umanità sufficientemente differenziata. È quello che è successo con il mio romanzo più recente, I mandible. Una famiglia, 2029-2047 [disponibile in italiano].
Alcuni critici mi hanno rimproverato per non avere dato spazio alle diversità nel mio romanzo, ma non avevo nessuna voglia di introdurre un personaggio gay o transgender nella narrazione che riguarda una famiglia bianca di New York. Poi ci sono state le critiche insensate di razzismo al mio romanzo da parte del “Washington Post”. È a questo punto che mi sono resa conto che, in un mondo dominato dalla politica dell’identità, gli scrittori di fiction devono stare molto attenti. Se decidono di rappresentare soggetti appartenenti a gruppi protetti, debbono applicare delle regole speciali, devono farsi un autoesame, come se fossero sul punto di aderire all’Unione Europea.
Una perdita di libertà creativa
Confesso che questo tipo di esame è finito anche nella mia testa. Quando ho iniziato la mia carriera di romanziere, per esempio, non ho esitato a scrivere di personaggi afroamericani o di avvalermi dei loro dialetti, per i quali, essendo cresciuta nel Sud degli Stati Uniti, avevo un discreto orecchio. Ora sono molto più ansiosa nel tratteggiare personaggi di razze diverse, e gli accenti mi rendono nervosa. È proprio per non perdere la mia ispirazione creativa che rimango fuori da Facebook e Twitter, che potrebbero sicuramente indurmi a un’auto-censura istintiva per timore di suscitare una tempesta su Twitter. Ma penso che tutto ciò, alla resa dei conti, sia una perdita. Penso che ciò sia il segno di una contrazione del mio immaginario che non va bene per i libri e non va bene neanche per la mia anima.
L’appartenenza a un gruppo più ampio non è un’identità. Essere asiatici non è un’identità. Essere gay non è un’identità. Essere sordo, cieco o confinato su una sedia a rotelle non è un’identità, né lo è l’essere economicamente svantaggiati. Se abbracciamo strettamente un’identità di gruppo, ci mettiamo in quelle stesse gabbie nelle quali gli altri vorrebbero intrappolarci. Ci auto-incaselliamo. Limitiamo la nostra essenza e, presentandoci come parte di un gruppo, come rappresentanti di un tipo, o ambasciatori di quello o un amalgama di queste cose, ci condanniamo all’invisibilità.
La lettura e la scrittura delle storie sono ovviamente guidate dal desiderio di guardare nell’intimità, di auto-esaminarsi e di riflettere su se stessi. Ma le storie nascono anche dal desiderio di liberarsi dalla claustrofobia della propria esperienza e iniziare un viaggio in quella degli altri.
Alla fine il discrimine non è l’identità ma la qualità delle storie
L’ultima cosa di cui gli scrittori di narrativa hanno bisogno sono le restrizioni su ciò che gli appartiene proprio come scrittori. In una recente intervista, il nostro collega Chris Cleave ha ammesso: “Come cittadino inglese ho diritto di scrivere la storia di una donna nigeriana? … Sono completamente d’accordo con le persone che dicono che non ho il diritto di farlo. La mia unica spiegazione è che so farlo bene”.
Il che mi porta al punto cruciale. Non tutti lo facciamo altrettanto bene. Quindi è più che plausibile che scrivendo dal punto di vista, diciamo, di una lesbica mutilata dell’Afghanistan facciamo fiasco. Non troviamo il dialogo giusto e per i dialoghi in Pashto dipendiamo da Google Translate. Gli sforzi per entrare persuasivamente nella vita di persone molto diverse da noi possono fallire: è un dato di fatto. Ma forse piuttosto che stracciarci le vesti, dovremmo cercare di miglioraci. Dopo tutto, la maggior parte della narrativa fa schifo. La maggior parte della scrittura fa schifo. La maggior parte delle cose che le persone fanno fa schifo. Ma questo non significa che non dovremmo fare nulla, per paura di fare qualcosa.
La risposta sta in un moderno cliché: fallire per cercare di migliorarsi. Detto francamente: che sia qualunque cosa, piuttosto che dover connotare i miei personaggio dal punto di osservazione di una donna della Carolina del Nord un po’ saccente, in là con gli anni e alta un metro e sessanta.
Noi, scrittori di romanzi, dobbiamo preservare il nostro diritto di indossare molti cappelli, incluso il sombrero.