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La Polonia è diventata un Paese illiberale che allarma l’Europa: rischio Polexit all’orizzonte

FIRSTonline - Lorenzo Gennari

In autunno l’Europa potrebbe essere scossa da un violento terremoto. L’epicentro potrebbe essere la Polonia, dove i cittadini saranno chiamati al voto. I beni informati sugli affari polacchi vedono la faglia allargarsi e all’orizzonte un rischio Polexit, se in quelle elezioni dovessero vincere di nuovo i sovranisti di Diritto e Giustizia (PiS) che da diciotto anni, sotto l’influenza di Jaroslaw Kaczynski, governano il Paese. Gli argomenti messi insieme per disegnare questo quadro fosco sono numerosi. Intanto, negli ultimi tempi, si è ampliato il fronte del conflitto fra i vertici comunitari della Ue e il governo di Varsavia.

Prima c’era stato il verdetto della Corte di Giustizia europea, che ha dato ragione alla Commissione di Bruxelles nel suo ricorso contro la riforma giudiziaria varata dal governo nel 2019, riforma che di fatto mina l’indipendenza dei magistrati, trascinandoli sotto il potere dell’esecutivo, attraverso il rafforzamento della Corte Suprema locale, di diretta emanazione del governo.

Poi è arrivato lo stop della stessa Commissione alla legge che ha istituito un organismo che deve indagare “sulla influenza della Russia nella vita del Paese”; una legge ribattezzata anti-Tusk, perché mira a impedire all’ex premier, e al suo partito, Piattaforma Civica (PO), oggi all’opposizione, di presentarsi alle prossime elezioni. Sull’argomento Bruxelles ha subito avviato una procedura di infrazione perché il testo è più che sospetto visto che si vuole prendere in esame le ingerenze di Mosca nel periodo 2007/2022, che coincide, guarda caso, con gli anni della premiership di Tusk (2007/2015).

In attesa di capire che cosa decideranno di rispondere i dirigenti polacchi, a quasi venti anni dall’entrata nella Ue della Polonia (2004), è lecito tentare un bilancio dell’esperienza: che cosa è diventato il Paese dopo che è uscito dall’orbita dell’Urss, una volta che questa è implosa?

La Polonia è il Paese Ue che riceve più fondi e li sa spendere bene

Poco più estesa dell’Italia, 312 milioni di chilometri quadri contro i nostri 302, per 38 milioni di abitanti, più giovani degli italiani per età media, 41 anni contro i nostri 48, la Polonia è lo Stato membro della Ue che usufruisce maggiormente dei Fondi strutturali, lo strumento principale degli investimenti europei per favorire la crescita dei Paesi membri: 106 miliardi di euro nella tranche 2014/2020, contro i 44,8 assegnati all’Italia nello stesso periodo.

Nessun euro però è andato perso: i polacchi sono stati bravissimi nello sfruttare l’occasione europea.
Gli analisti più attenti ritengono che l’entrata della Polonia nella Ue “abbia accelerato in maniera impressionante il consolidamento infrastrutturale del Paese, che, a differenza di altri Paesi ex comunisti dell’area, non è stato minato da rilevanti fenomeni di corruzione e poca trasparenza negli appalti”. Inoltre l’entrata nella Ue “ha anche favorito la trasformazione economica del Paese che si è aperto ai capitali stranieri e ha dato via libera a una nuova classe imprenditoriale polacca che in certi casi si è inserita con grande efficacia nel mercato unico europeo mutuandone le pratiche più virtuose”. Non solo. Ma anche dal punto di vista finanziario “la Polonia ha fatto un salto qualitativo e oggi impiega più di 100mila addetti nel settore finanziario”.

Insomma “la Polonia di oggi non ha più aree degradate o sacche di povertà, e le grandi città, come Varsavia (che ha avuto uno sviluppo economico come nessuna altra città europea), Breslavia, Poznan, Danzica, Cracovia sono pienamente parte del circolo economico-culturale dell’Europa”. Che cosa è andato storto allora? Perché lo spirito anti Ue è così acceso da quelle parti? E’ la storia di sempre, accade ovunque: pezzi di Paese che si sentono esclusi dal banchetto e che corrono nelle braccia di politici che hanno come unico obiettivo il proprio interesse personale.

Polonia: la trasformazione economica ha dato il benessere al Paese ma ha alimentato il rancore sociale

Nel caso della Polonia, tutto comincia con il crollo dell’Urss e quindi con i sommovimenti che sconvolgono i satelliti dell’ex paese dei Soviet. Il passaggio dall’economia pianificata a quella di mercato lascia sul terreno migliaia di vittime, tutti tagliati fuori o colpiti dolorosamente dalla trasformazione capitalistica. E mano a mano che il tempo passa accade che le cose migliorano per alcuni, ma non per tutti e che, soprattutto nelle aree rurali del Paese, si comincia a confondere il malessere con l’Europa, e Bruxelles con l’annichilimento della peculiarità polacca. Tema sul quale i sovranisti battono la grancassa mentre la loro ricetta politica ricalca i soliti stereotipi: omofobia, avversione per le immigrazioni provenienti da Africa o Medio Oriente, paura rispetto a una società multirazziale, attaccamento a modelli tradizionali di famiglia.

La Polonia post comunista prima resiste, poi cede. L’ondata conservatrice e anti europea lascia tracce: il tasso di democrazia nella società viene limato. Lo registra il sito V-Dem, che ne misura l’indice all’interno dei Paesi: se nel 2015 la Polonia aveva lo 0,8, dato simile a quello dell’Italia o della Germania, nel 2021 è sto di 0,4, lo stesso del Kenya. Servirebbe più tempo per avviare un cambio generazionale e per ristabilire l’equilibrio nel Paese fra le parti più arretrate e quelle più all’avanguardia: ma la Polonia l’avrà tutto questo tempo? E la domanda ci riporta al pericolo Polexit: perché se vincesse ancora il PiS il rischio di uscita dall’Ue sarebbe più concreto? Chi conosce bene quello che accade sul palcoscenico polacco e i suoi principali attori, ritiene che questo governo preferirebbe piuttosto rinunciare ai 36 miliardi del Pnrr destinati alla Polonia, ancora congelati a Bruxelles, piuttosto che aprirsi ai controlli europei , perché il regime attuale ha già stravolto la divisione dei poteri. Per esempio, per quel che riguarda la giustizia: il ministro Zbigniew Ziobro, che è anche Procuratore generale, minaccia o tiene sotto scacco migliaia di persone, ordinando perquisizioni e intimidazioni verso coloro che manifestano pubblicamente il dissenso. Mentre la citata legge anti-Tusk riporta in mente il periodo comunista, quando si poteva con la delazione accusare e far arrestare chiunque.

Polonia: l’eterno duello tra Tusk e Kaczynski

I polacchi, però, sono indomiti, lo sapevano i comunisti (furono i primi a ribellarsi a Mosca nel 1956) e lo sanno i sovranisti. Proprio la scorsa settimana sono scesi in piazza in 500mila contro il governo, così come le donne, nei mesi passati, avevano protestato a migliaia contro le restrizioni all’aborto (oggi è previsto solo in caso di stupro e gravi pericoli per la vita). Ma le piazze sono una cosa e le urne un’altra, lo abbiamo imparato. La verità – sostengono gli analisti – è che il risultato del voto si giudicherà più sulla disaffezione della provincia nei confronti di Kaczynski che sui risultati economici. Conteranno forse di più il clientelismo, il nepotismo, l’appartenenza al clan del PiS, elementi sempre più invadenti.

E poi c’è lui, il candidato Tusk, l’uomo che vorrebbe riportare la Polonia dentro l’alveo europeo, senza nessun indugio. Il fatto è che non è molto amato: è considerato in patria, soprattutto dai ceti più poveri della popolazione, colui che li ha trascinati nel capitalismo più brutale, privandoli del poco che il comunismo offriva loro, cancellando la sicurezza e la stabilità sociale della provincia profonda. Viene dipinto da chi ha scelto il PiS come il capitalista arrabbiato e senza cuore che ha venduto l’anima alla Ue. In tanti sostengono che chi ha scelto Kaczynski magari non va a votare, ma è difficile che voti Tusk.
Eppure il “Donald” polacco, 66 anni, ha un curriculum politico di tutto rispetto.

Intanto è nato dentro l’alveo di Solidarnosc, il sindacato cattolico e anti comunista fondato nel 1980 in seguito agli scioperi nei cantieri navali di Danzica e guidato da Lech Walesa, e dal quale in verità sono nati entrambi i partiti “pigliatutto”, il PO di Tusk e il PiS di Kaczynski. Dopo la caduta del comunismo, per tutti gli anni Novanta, Tusk sperimentò e guidò partiti di area liberale che sfociarono poi nel 2001 alla formazione dell’attuale Piattaforma Civica (PO), del quale è ancora oggi il presidente. I Kaczynski sono i suoi avversari di sempre, come due “famiglie” nello stesso borgo.

Nel 2005 Tusk fu sconfitto alle presidenziali dal gemello dell’attuale capo del PiS, Lech, morto, nel 2010, insieme alla moglie e a quasi cento membri del suo governo, in uno strano incidente aereo di cui sono stati accusati i servizi segreti russi. Nel 2007 Tusk però si ripresentò alle elezioni parlamentari e le vinse.
Ed ecco che fu designato come premier guidando il suo Paese per sette anni (2007/2014), avendo vinto di nuovo nelle elezioni del 2011. La sua carriera politica nazionale si è intrecciata con quella europea: è stato Presidente del consiglio europeo dal 2014 fino al 2019, tornando poi in patria per prepararsi ad affrontare di nuovo Kaczynski. “Sono tornato per sconfiggere il male provocato alla Polonia”, ha dichiarato. Anche se il ritorno a casa non sempre ha portato fortuna ai leader europei, vedi il tramonto del socialdemocratico tedesco Martin Schultz.

Tusk appare sicuramente un ottimo candidato, anche se alcuni gli avrebbero preferito il suo collega di partito più giovane e sindaco di Varsavia, Rafal Trzaskowski, 51 anni, prof universitario, già ministro per la digitalizzazione nel suo governo, l’unico che, a detta di molti, avrebbe potuto intercettare i voti dei “pisini” delusi, visto che perse per pochi voti la sfida presidenziale con Duda nel 2020. Oramai però le scelte sono fatte e la guerra in Ucraina ci metterà del suo. Tutti gli osservatori sostengono che sicuramente essa non avvantaggerà l’opposizione.

Varsavia vuole diventare l’hub di una nuova Europa

La società civile polacca e lo stesso governo hanno aperto le porte ai profughi senza tentennamenti, offrendo loro assistenza di ogni genere, dalla scolastica alla sanitaria, concedendo sussidi. Essi si sono aggiunti al milione e mezzo di ucraini che tengono in piedi l’economia polacca in settori cruciali come i trasporti, le opere infrastrutturali, i servizi più umili, l’assistenza familiare. Tutto ciò mentre a livello internazionale la Polonia è diventata centrale poiché la stragrande maggioranza degli aiuti all’Ucraina (militari e umanitari) passa per il territorio polacco. Questo spinge il presidente Duda e il premier Morawiecki a coltivare l’ambizione di rendere la Polonia l’hub di una nuova area (dominata da Varsavia) che comprenda l’Ucraina, i Paesi Baltici, la Romania fino alla Croazia. Insomma la rinascita in grande delle ambizioni della Polonia dentro il Trimarium, l’iniziativa dei Tre Mari, nata nel 2015 come acceleratore di politiche infrastrutturale (trasporti, energia e autostrade digitali) tra i 12 Paesi dell’Europa centrale e orientale che si trovano fra il Mar Baltico, il Mar Nero e il Mar Adriatico. I Tre Mari appunto.
Oggi, in tempo di guerra, quella iniziativa può acquistare un valore che supera quello di semplice incubatore economico.

È legittimo quindi chiedersi se quei 12 Paesi, che rappresentano quasi il 30% del territorio della Ue e il 25% della sua popolazione, ai quali si è aggiunta l’Ucraina come invitata nei mesi scorsi, non potrebbero decidere di rappresentare essi soli la “nuova Europa”, quella che interpretando la democrazia in maniera più lasca (più “giovane” direbbe la premier italiana) ne selezionerebbe i valori espungendone quelli più ostici: libertà di parola, diritti civili e tolleranza prima di tutti gli altri. Immaginando una “nuova” Bruxelles dove questa democrazia “leggera” potrebbe essere applicata e diffusa nella comunità tutta.

Certo, sul fronte internazionale il nemico resterebbe Putin e la sua Russia illiberale, e nello sfondo continuerebbe a esserci il pericolo cinese. Mentre gli Usa ne resterebbero i numi tutelari, per fortuna lontani. All’interno dei Paesi, però, sarebbe difficile fare la differenza fra i rischi che corre un oppositore al regime russo, e un altro che vuole esprimere dissenso al governo polacco, ungherese o in uno qualunque dei Paesi della Ue. Arrivati a questo punto, siamo sicuri che stiamo parlando del voto in Polonia? Oppure il terremoto che temiamo è quello che può partire il prossimo anno da Strasburgo con il nuovo Parlamento europeo? La domanda è d’obbligo.

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