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La politica è complice o vittima della burocrazia? Tutt’e due. Ecco perchè

Perché i creditori delle pubbliche amministrazioni non vengono pagati? Perché le imprese emiliane che hanno subito danni nel terremoto dell’anno scorso non riescono ad ottenere i contributi pubblici? Perché a L’Aquila, a tre anni dal terremoto, la ricostruzione non è ancora cominciata?

Perché le informazioni sui pagamenti dovuti dalle pubbliche amministrazioni sono disperse, frammentate e disorganizzate e anche quando si decide di pagare almeno una parte dei debiti scaduti, come prevede il decreto legge n. 35 del 2013, non si sa a chi pagare, con quali priorità e quanto.

Perché anche quando si prevede che i terremotati abbiano diritto ai contributi pubblici, l’iter amministrativo è molto complicato e richiede tanto tempo, che le imprese non hanno: se non riprendono la produzione appena possibile, senza attendere i tempi della burocrazia, falliscono e devono licenziare.

Perché la ricostruzione di una città come L’Aquila richiede un’assunzione di responsabilità coordinata fra tante amministrazioni diverse, e ciascuna opera, invece, per proprio contro, spesso cercando più di schivare la responsabilità che di risolvere il problema.

La politica è in parte complice e in parte vittima di questa situazione. Complice, perché di frequente è più interessata a scegliere persone di fiducia che non dirigenti competenti e a moltiplicare gli annunci legislativi, senza preoccuparsi poi dell’attuazione delle norme. Vittima, perché i burocrati, di converso, sono indotti a coltivare il rapporto fiduciario piuttosto che ad esercitare le proprie competenze e ad enfatizzare il proprio ruolo, espandendo la regolazione amministrativa.

Alla confusione legislativa si aggiunge, così, la moltiplicazione di regolamenti, decreti, circolari, pareri e atti amministrativi. Con questi atti, però, non si decide niente, ma si continua a fornire interpretazioni delle norme e, spesso, ad introdurre nuovi adempimenti a carico di cittadini ed imprese.

Un esempio paradossale di questa tendenza è fornito dalle c.d. misure di semplificazione. Queste consistono spesso nel rimettere al cittadino o all’impresa il compito di interpretare le norme, di verificare la sussistenza dei requisiti e di certificarli (così nei casi del silenzio-assenso, della Dia e della Scia). A fronte di questo sforzo, l’amministrazione può rimanere silente e inerte, e in questo caso l’attività si intende autorizzata e può quindi iniziare. L’incertezza è, però, sempre incombente, perché l’amministrazione può verificare in ogni momento la sussistenza dei requisiti e, se la sua interpretazione diverge da quella di chi ha fatto l’istanza, l’attività può essere sospesa o anche definitivamente bloccata.

Per il cittadino e per le imprese sarebbe sicuramente più vantaggioso avere una previa decisione dell’amministrazione, che sarebbe una certezza che l’autocertificazione non sempre riesce a garantire. Poiché, però, l’amministrazione italiana usa del tempo come vuole e non si è mai riusciti a farle rispettare i termini, si ricorre ad un espediente – il silenzio assenso e le autorizzazioni tacite – che scaricano sul richiedente sia il compito dell’istruttoria, sia il rischio del controllo successivo.

Il problema non è solo e tanto di consentire di agire a fronte di un’amministrazione inerte, ma di disporre di un’amministrazione capace di decidere tempestivamente e in modo tecnicamente attendibile. Tanto più questo è vero per le decisioni su questioni complesse: la realizzazione di un’opera pubblica, di un impianto produttivo, di una infrastruttura.

La questione centrale non è, allora, se nel rapporto tra politica e amministrazione debba prevalere l’una o l’altra, ma piuttosto la qualità, sia della politica, sia dell’amministrazione (un ministro capace, come ha ricordato F. Cavazzuti su questo sito, difficilmente può essere ostacolato dai suoi dirigenti).

La qualità dell’amministrazione richiederebbe una molteplicità di misure, su piani diversi. Per fare solo qualche esempio: un reclutamento basato sul merito, un’attribuzione di funzioni razionale e non frammentata, una ristrutturazione dei processi decisionali e anche, last but not least, un profondo ripensamento dei controlli – amministrativi, contabili, penali – che spesso operano come veri e propri disincentivi all’assunzione di responsabilità e alla scelta di soluzioni innovative. Non a caso la costruzione di capacità amministrativa – capacity building, nel gergo comunitario – è fra le finalità essenziali previste per l’uso dei fondi strutturali: un territorio non può svilupparsi senza amministrazioni competenti e capaci di decidere e di agire.

Oltre al versante, per così dire, interno si possono introdurre misure che operino sul versante esterno dei rapporti fra amministrazione e cittadini. L’amministrazione dovrebbe, ad esempio, condividere sin dall’inizio le sue conoscenze e la sua interpretazione delle norme, indicando con chiarezza sui propri siti cosa si può fare e cosa no, come si devono preparare le richieste, quali richieste possono essere accettate e quali no, e perché. Anche nel corso del procedimento, l’amministrazione non dovrebbe limitarsi a rilevare carenze o ostacoli, ma indicare al cittadino come possono essere superate le difficoltà e come si può raggiungere il risultato. Come ha mostrato R. Cass Sunstein nel libro (Simpler: The Future of Government, Simon & Schuster, 2013) in cui racconta la sua esperienza all’Oira durante la prima presidenza Obama, l’amministrazione non deve limitarsi a pubblicare le regole, ma dimostrare concretamente come possono e devono essere applicate: perché l’amministrazione è al servizio della collettività e non viceversa.

Quanto alla qualità della politica… Spes ultima dea.

Su POLITICA e BUROCRAZIA sono intervenuti di recente su FIRSTonline:
Giulio SAPELLI (8 maggio), Franco LOCATELLI (9 maggio), Bruno TABACCI (11 maggio), Linda LANZILLOTTA (14 maggio) e Filippo CAVAZZUTI (22 maggio).  

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