Recentemente è stata ripubblicata un’opera fondamentale per capire la modernità e gli sviluppi dell’arte e dell’estetica contemporanea. Si tratta di un libro seminale che ha influenzato intere generazioni di artisti e pensatori. È L’opera d’arte del futuro di Richard Wagner in traduzione italiana ripubblicato da goWare con un ampio apparato introduttivo con i saggi di Paolo Bolpagni, Andrea Balzola e Annamaria Monteverdi.
Das Kunstwerk der Zukunft, pubblicato a Lipsia nel 1850, è un’opera breve, intensa, polemica, e alle volte confusa ma sempre geniale, che si propone di rivoluzionare l’intero concetto di arte della tradizione occidentale. Quello di opera totale di Wagner è un concetto antesignano di quello internettiano di mash-up che plasma la molta arte del ciberspazio. Per questo i giovani artisti digitali dovrebbero confrontarsi con le idee del grande e discusso musicista tedesco.
Siamo lieti di proporre ai nostri lettori uno stralcio dalla nuova edizione di goWare. Si tratta del saggio di Anna Maria Monteverdi dal titolo La nuova scena tecnologica e l’eredità wagneriana.
Buona lettura!
Teatro: campo magnetico per tutte le arti
La prospettiva multimediale del teatro perfeziona l’utopia di sintesi delle arti delle avanguardie storiche: la Gesamtkunstwerk di Wagner (l’opera d’arte totale o comune o unitaria secondo le diverse traduzioni) ovvero il dramma unificante di parola e musica (Wor-Ton-Drama) espresso in particolare ne L’opera d’arte del futuro (1849), prefigurava una comune aspirazione a un’ideale di accordo dei diversi linguaggi componenti lo spettacolo; in sostanza, diremo oggi, quel principio di totalità delle arti proponeva una «strategia della convergenza, della corrispondenza e della connessione»[1].
Il teatro diventa, pur nella diversità delle proposte teoriche, un«campo magnetico per tutte le arti» (Kandinski): dalla totalità espressiva del nuovo teatro di Edward Gordon Craig, luogo di una “musica visiva”, alla sintesi organica e corporea di arti dello spazio e arti del tempo secondo Adolphe Appia, alla composizione scenica astratta di suono, parola e colore di Wassily Kandinsky sorretta dal principio costitutivo dell’unità interore che non doveva oggettivare la realtà ma costituire un evento spirituale capace di suscitare vibrazioni e risonanze condivise dal pubblico.
All’utopia della sintesi delle arti si lega la formulazione del teatro della totalità del Bauhaus con la rappresentazione “simultanea sinottica e sinacustica” di Moholy-Nagy e la “simbiosi impressionista dei linguaggi” della multiscena tecnologica di Josef Svoboda che negli spettacoli della Lanterna Magika combinava in una composizione sincronica, plastica e sonora, l’azione dell’attore o del danzatore, la scena cinetica, il suono stereofonico, gli schermi di proiezione mobili e il cinema.
Eco di quel principio di totalità la troviamo nel programmatico No Borderline between Arts di George Maciunas per il movimento Fluxus degli anni Cinquanta e Sessanta: non più scultura, poesia e musica ma evento che inglobi tutte le discipline possibili.
Sintesi, totalità e sinestesia si sono declinati in una rinuncia agli spazi tradizionali del teatro all’italiana per rivitalizzare in senso espressivo e relazionale, luoghi trovati dell’esperienza quotidiana connotati in questo modo di un carattere di efficacia drammaturgica. Si tratta di un cammino verso una narrazione non lineare e cinetico-visiva verso inedite modalità di avvicinamento fisico allo spettatore fino a una sua inclusione nell’opera. La sempre più spinta dilatazione tecnologica fatta di dispositivi interattivi soddisfano un’esigenza di azione, prossimità e mobilità rispetto all’evento o agli eventi sparsi, mobilità che riguarda anche lo scavalcamento di ruolo e intercambiabilità tra attore e pubblico.
La ricerca di una partecipazione dell’osservatore e una vera “immersività” dentro l’opera si inaugura con i panorami pittorici a 360° e con l’esperimento polivisivo o cinema simultaneo, di Abel Gance (Napoléon, 1927), per proseguire con il Cinerama presentato all’Esposizione mondiale di Parigi che proponeva dieci film da 70mm proiettati contemporaneamente, pionieristico tentativo di espandere il campo visivo dei film sfruttando le zone periferiche dell’occhio umano.
Da una parte il cinema delle avanguardie richiama al coinvolgimento di tutti i sensi con schermi semisferici o rotanti, simultaneità di proiezioni, alterazioni di velocità, generale sovvertimento della passività dello spettatore, dall’altra il teatro con macchinari per muovere le scene, piattaforme girevoli, palcoscenici simultanei e circolari, proiezioni cinematografiche (Mejerchold in Terra capovolta), scenografie dinamiche e tridimensionali innovative (rampe elicoidali per R.U.R. di Kiesler) si apre alla percezione di quella che Maria Bottero con una bella immagine definisce «la curvatura del mondo», verso cioè una multidimensionalità e un nuovo rapporto tra attore e pubblico raggiunto sia con l’architettura sia con l’uso di immagini cinetiche sincronizzate con l’azione scenica[2].
L’architetto Walter Gropius dichiarò che lo scopo del suo “Teatro totale” progettato per Piscator doveva essere quello di trascinare lo spettatore al centro degli avvenimenti scenici ed «entro il raggio di efficacia dell’opera». Erwin Piscator il regista fondatore del Proletarisches Theater nella Germania della fallita Rivoluzione di Novembre di Karl Liebknech e Rosa Luxemburg e pioniere di una scena multispaziale e multimediale in Ad onta di tutto (1925) inserì sia immagini fisse che il film documentario, ovvero pellicole autentiche che mostravano gli orrori della guerra; in Oplà, noi viviamo (1927) insieme con lo scenografo Traugott Müller progettò una costruzione scenica a più piani prevedendo un largo impiego, oltre che dei disegni di George Grosz, di proiezioni cinematografiche per creare «una connessione tra l’azione scenica e le grandi forze che agiscono nella Storia». L’Endless Theatre di Frederick Kiesler, il Teatro anulare di Oskar Strandt, il teatro ad U di Farksas Molnàr fino ai più recenti dispositivi di Poliéri (la sala giroscopica, la scena tripla, la sala automatica mobile, scena e sala telecomandate, ruotanti e modificabili), sono alcuni esempi di una ricerca volta a determinare un allargamento della cornice scenica, che avvolgesse letteralmente il pubblico in un ideologica spinta alla partecipazione globale.
Il teatro totale implica anche la collaborazione con professionisti dei diversi campi; la scena si configura sempre di più come laboratorio, come progettazione collettiva: il miraggio di una creazione drammaturgica collettiva (Piscator), di un Teatro atelier (Svoboda), di un teatro-laboratorio (la scuola del Bauhaus a Weimar e a Dessau; il Teater laboratorium di Grotowsky), di un teatro-studio (Mejerchold) che dia valore alla fase progettuale, ideativa e pratica, anticipa il concetto di équipe propria del teatro multimediale attuale. La complessità delle fasi di progettazione di una scena tecnologica implica infatti un ripensamento al concetto di regia mentre la troupe teatrale assorbe al suo interno figure tecniche qualificate come ingegneri, tecnici ed elaboratori del suono e della luce, informatici. Il laboratorio diventa il momento centrale della ricerca e si tratta sempre più di un lavoro di un collettivo tecnico-artistico aperto anche al contributo del pubblico.
Dalla totalità delle arti all’ambivalenza intermediale
L’adeguamento del nuovo teatro ai principi portanti dei new media ha portato a una evoluzione dalla ormai storica “scena multimediale” (in cui avveniva uno scambio alla pari dei media) verso quella “ambivalente” (in cui prevale il “formato mediale” di singoli supporti indipendenti sull’integrazione degli stessi). Concetto bene espresso proprio dal regista e compositore tedesco Heiner Goebbels che specifica quanto i suoi lavori teatrali – che contengono elementi sia musicali che multimediali – non siano affatto finalizzati ad una “opera d’arte totale wagneriana”:
Non miro al Gesamtkunstwerk, al contrario. In Wagner ogni cosa tende e opera verso lo stesso fine. Ciò che vedi è esattamente ciò che senti. Nei miei lavori la luce, la parola, la musica e i suoni sono tutte forme a sé. Quello che cerco di fare è una polifonia di elementi in cui ogni cosa mantiene la sua integrità, come una voce in un brano di musica polifonica. Il mio ruolo è quello di comporre queste voci in qualcosa di nuovo[3].
La contemporaneità artistica è fatta di innesti paradossali e di produzioni miste, di complessi progetti che approdano indifferentemente nel web, nelle gallerie d’arte e nei teatri: in questa generalizzata «computerizzazione della cultura» (seguendo Lev Manovich), si produce una fenomenologia artistica aperta, mimetica e mutante.
Si privilegia infatti, la libertà espressiva di un nuovo genere tecno-artistico derivante indistintamente dal videoclip, dalle installazioni, dai concerti, dal vjing, dalla graphic art, fino al cinema di animazione e persino alla videogame art. Non mescolanza, ma intertestualità: è l’intertestualità la logica prevalente delle nuove produzioni mediali, ricorda Giovanni Boccia Artieri:
Ci troviamo cioè entro una logica di produzione di testi che echeggiano testi precedenti, incedono sul gioco delle citazioni, evocano e suggeriscono, sono autoreferenti, e allo stesso tempo si aprono al remake, producendo uno stato di particolare eccitazione per la forma[4].
L’ambivalenza indica un oggetto che ha una doppia proprietà o funzione, che si presenta sotto due aspetti diversi (non necessariamente in opposizione): in queste nuove produzioni tecnologiche il teatro non nasce dal teatro e soprattutto non si esaurisce nell’atto teatrale, ma acquista una vitalità infinita grazie al digitale potendo espandersi in forma di film, installazione, opera d’arte autonoma. Da una parte ritroviamo una storica poetica di intreccio di linguaggi, dall’altra una proposta estetica più vicina alla tematica del digitale che considera i singoli elementi di un progetto artistico come oggetti (o testi) multimediali come interscambiabili, aperti alle più diverse incarnazioni e tali da poter sperimentare tutti i possibili incastri mediali, in un nomadismo tecnologico senza precedenti. Ogni format può essere, così, considerato alternativamente realizzazione artistica autonoma o tappa di un ulteriore processo di elaborazione – virtualmente infinito e rigorosamente aperto.
Il principio di variabilità permette di avere a disposizione numerose opzioni per modificare la performance di un programma o di un oggetto mediale: un videogioco, un sito, un browser o lo stesso sistema operativo. […] Se noi applicassimo questo principio alla cultura tout court significherebbe che tutte le opzioni utilizzabili per dare a un oggetto culturale una sua identità specifica potrebbero in teoria, restare sempre aperte.[5]
Ne risulta una indeterminatezza di genere che è la caratteristica dei nuovi formati digitali, apparentemente privi di un modello strutturale classificatorio. Si tratta, come osserva acutamente Laura Gemini.
Sono performance liminoidi e intermedie che mettono in luce la propria ambivalenza rendendosi difficilmente classificabili. È un’arte della performance che ha fatto propria la consapevolezza postmoderna, che ha riconosciuto l’esistenza di una rete complessa di flussi comunicativi e l’idea della conoscenza come partecipazione creativa dell’oggetto conosciuto. […] Parlare della performance artistica oggi significa non pensare né allo spettacolo come testo distinto (teatrale, televisivo, cinematografico o sportivo che sia) né allo spettacolare come categoria puramente estetica. Si deve piuttosto porre come condizione prioritaria la fluidità del mélange e rinvenire in quelle pratiche spettacolari che non si prestano ad essere classificate secondo rigide convenzioni formali. La stessa messa in scena va intesa come organizzazione di testi (cinema, teatro, televisione) che tendono alla progressiva indistinzione, a una dinamica di flusso che rende miglior merito alle forme comunicative contemporanee[6].
Se Rosalind Krauss proponeva in Art in the age of the post modern condition (2005) di tracciare una riga definitiva per eliminare la parola medium «così da seppellirla come tanti altri rifiuti tossici della critica e procedere nel mondo della libertà lessicale», Zygmunt Bauman in Modernità e ambivalenza (2010) individua nel concetto di “ambivalenza” che romperebbe la pratica del modello strutturale normativo, dell’ordine classificatorio delle categorie estetiche, uno dei temi chiave del postmoderno.
La situazione si fa ambivalente se gli strumenti di strutturazione linguistica si rivelano inadeguati: o il caso in questione non appartiene a nessuna delle categorie individuate dalla linguistica, oppure si colloca in più classi contemporaneamente. In una situazione ambivalente nessuno dei modelli appresi è quello giusto ovvero se ne potrebbe applicare più di uno […]. L’ideale che la funzione nominatrice/classificatrice si sforza di raggiungere è una sorta di ampio archivio che contenga tutte le cartelle che contengono tutti gli oggetti che il mondo contiene: ogni cartella e ogni oggetto sono però confinati in un loro posto distinto. È l’impossibilità di realizzare un simile archivio che rende inevitabile l’ambivalenza. […] Classificare consiste negli atti di includere e escludere. Ogni volta che diamo un nome a qualcosa, dividiamo il mondo in due: da un lato le entità che rispondono a quel nome; dall’altro tutte quelle che non lo fanno. […] L’ambivalenza è un effetto collaterale del lavoro di classificazione. […] Quella all’ambivalenza è una guerra suicida.[7]
Ambivalenza delle tecnologie in atto quale potenzialità di scambio.
Masbedo, Big Art Group, Dumb Type, Tam Teatromusica e Motus sono emblematici di questa “tendenza ambivalente” del teatro. Nelle performance dei giapponesi Dumb Type la partecipazione dello spettatore è di natura totalizzante e immersiva, ricca cioè, di stimolazioni sensoriali multiple (dalle sub frequenze al noise, dalle immagini distorte, velocizzate ai video multipli), come se fosse un’installazione audiovisiva sperimentale.
Motus sperimenta da sempre la contemporaneità di teatro-cinema in scena (da Twin rooms a X-racconti crudeli della giovinezza) e introduce anche la grafica animata (Rumore rosa); gli statunitensi Big Art Group con il ciclo di spettacoli definito “real time film”(Flicker, House of no more) ricreano un vero set cinematografico (usando un green screen) con la messa in mostra degli effetti da truquage[8]. Approda a teatro una “composizione digitale” che unisce in una continuità senza cesura, televisione, cinema e teatro secondo una nuova estetica – seguendo Lev Manovich – “anti-montaggio” ovvero, «una creazione di spazi contigui in cui interagiscono diversi elementi. […] Nella composizione digitale gli elementi non sono più contrapposti ma miscelati; i loro confini vengono cancellati più che enfatizzati».[9]
Masbedo (i video-maker Bedogni-Masazza) provano nuove forme di performatività trasversale, traslocando dal video al teatro tematiche esistenziali profonde. In Teorema di incompletezza, Glima, Autopsia del tralala, Togliendo tempesta al mare, Person, protagonista è il senso di vuoto, di disincanto e di precarietà esistenziale, l’incomunicabilità, l’isolamento volontario come rifugio ultimo, la custodia sisifica dei valori societari, l’arte che trattiene gli ultimi brandelli di umanità, la sterilità dei rapporti umani nel generale inaridimento e decadenza morale della società occidentale, il bisogno di infinito. Come Amleti irrequieti, vaganti nel vuoto pneumatico di una condizione tragica, evocata nella sua abissalità da una camera iperbarica o da interminabili silenzi, i protagonisti vivono distillandosi l’ossigeno per una rinascita, o almeno, per una via di fuga.
Citando le pionieristiche esperienze video performative di Nam June Paik, ma anche quelle successive di Laurie Anderson e Peter Gabriel, Masbedo allestiscono le loro performance a partire da originarie videocreazioni per poi arricchirle ed espanderle – alterandole radicalmente – con una componente musicale live.
La loro è un’arte intermediale in cui la musica il cinema, il video e la performance sono sempre strettamente collegati: il riferimento principe per Masbedo è il territorio multidisciplinare dell’arte video della metà degli anni Sessanta, fecondo terreno per sperimentazioni di incroci, attraversamenti e transizioni. In quel contesto di effervescenza creativa e sperimentale, il “medium video” ha vissuto in perfetta promiscuità con le altre arti con le quali si è intrecciato e confrontato.
Anna Maria Monteverdi. Studiosa di teatro e media digitali; docente in varie Accademie (Lecce, Brera, Torino) e Università (Dams d Genova, Facoltà di Lettere, Cagliari), è autrice di volumi sul teatro (Il teatro di Rober Lepage) e sulla digital performance (Nuovi media nuovo teatro) e sull’arte multimediale (Le arti multimediali digitali, Garzanti, 2014). È co-fondatrice con Oliviero Ponte di Pino di www.ateatro.it.
[1] E.Quinz, in A.Balzola, A.M.Monteverdi, Le arti multimediali digitali. Milano Garzanti 2005, p.109.
[2] M. Bottero, Frederick Kiesler, Milano, Electa, 1995
[3] Cfr: A.M.Monteverdi, Rimediando il teatro con le ombre, le macchine, i new media, La Spezia, Ed. Giacché, 2013.
[4] G.Boccia Artieri, La sostanza materiale dei media, prefazione a A.Darley, Videoculture digitali, Milano, FrancoAngeli, 2006
[5] L. Manovich, Il linguaggio dei nuovi media, Milano, Olivares, 2001.
[6] L.Gemini, L’incertezza creativa. I percorsi sociali e comunicativi delle performance artistiche, FrancoAngeli, Milano, 2003, pag. 69-70.
[7] Z. Bauman Modernità e ambivalenza, Torino, Bollati e Boringhieri, 2010 p.12.
[8] Vedi: A.M. Monteverdi, Nuovi media, Nuovo teatro, Milano, FrancoAngeli, 2011
[9] Nel capitolo Composizione da Il linguaggio dei nuovi media, Lev Manovich sottolinea come nella composizione digitale si oggettivi quell’estetica della continuità tipica della cultura dei computer e opposta all’estetica del montaggio cinematografico: «Il montaggio mira a creare una dissonanza visiva, stilistica, semantica ed emotiva tra i vari elementi, invece la composizione digitale tende a miscelarli in un tutto integrato, un’unica gestalt». L.Manovich, Il Linguaggio dei nuovi media, Milano, Olivares, 2001, p.187.