Siamo ormai ad un anno dalla decisione che ha sciolto l’Istituto del Commercio Estero. Da molti mesi alla testa della neonata Agenzia per l’Export siedono un Presidente e un Consiglio di Amministrazione del tutto nuovi, espressioni accreditate delle Istituzioni pubbliche nonché delle imprese. Ciò nonostante un ex Direttore Generale, assunto all’unanimità con tanto di contratto poche settimane prima dello scioglimento dell’Istituto, si batte a suon di carte da bollo in difesa delle proprie ragioni oltre che dei propri legittimi interessi, pretendendo oltre al mantenimento degli emolumenti e dell’ufficio anche quello dei poteri annullati per decreto. Fino ad oggi vantando ragioni giuridiche consolidate.
Lo studio (offerto pare da Confindustria) della Mckinsey (base della riforma e del rilancio) stenta a farsi concretezza anche perché, leggendolo, non si va oltre la fotografia storica della presenza internazionale del nostro Paese, privo come è di soluzioni operative innovatrici e concrete.
I dirigenti ex Ice si barcamenano alla ricerca di segnali o di indicazioni di una “cabina di regia” vasta ed affollata da tre Ministeri, da quattro organizzazioni imprenditoriali e da Regioni riluttanti a cedere poteri e prerogative. Anche la curiosità, legittima ed indispensabile, delle Commissioni parlamentari sul futuro dell’Agenzia si è concretizzata in audizioni senza ,ad oggi, rifrazioni innovative sul cammino della stessa.. L’ultima, al Senato, si è risolta in una débacle di immagine e di progetto sotto il tiro di parlamentari scettici, increduli e soprattutto delusi dai primi passi di un Presidente caro al Governo dei professori. Il senatore Casoli (proprietario dell’ Elica) ha parlato pochi minuti per affondare, ancora in cantiere, la barca del neo Agenzia. “Tre a zero” commentava in corridoio uno sconsolato dirigente dell’ex Ice.
Cosi stanno le cose dal momento che non si è voluto scegliere la strada del completamento di quel processo che voleva legare la nostra espansione produttiva e commerciale sui mercati alla diplomazia” politica” del Paese.
L’integrazione compiuta con la Farnesina quale ultimo passo del processo voluto da Marzano e da Frattini si è dissolta nel nulla delle cabine di regia, nella nebbia dei concerti tra burocrazie ministeriali per finire in una maionese impazzita tra camere di commercio nazionali ed estere, Regioni, Ambasciate e Consolati.
Oggi tutta la tensione riformatrice è saldata sui bandi di concorso per scegliere dentro il vecchio organico (nazionale ed estero) dell’ex Ice e i 300 o 400 funzionari dell’Agenzia. Tolto di mezzo il fastidioso metodo del merito e delle specializzazioni sembra trionfare la carriera (spacciata per curriculum), l’anzianità e tutto quella corazza parasindacale che ingessa meriti e professionalità.
Si pensa, nel frattempo, a tenere aperte solo le sedi di Milano e quella di Roma (decisione saggia) ma nulla si sta facendo per chiudere tutte le rimanenti sedi regionali. Quando si arriverà a chiudere quelle di Napoli, Bari o Palermo ne vedremo delle belle.
All’estero si attendono miracoli operativi dalle Camere di Commercio all’estero; alcune professionalmente efficienti (Londra, Francoforte, Madrid), altre soprattutto macchine da guerra per i consensi elettorali o per la difesa economica di élites oriunde (America Latina o India).
In tutta questa “statica confusione” non esce un progetto chiaro. La Farnesina appare appagata nelle sue prerogative di vedere le Ambasciate al centro del sistema ma senza responsabilità di iniziativa.
Confindustria non ha proprio nulla da aggiungere? Gli anni e le esperienze di Petrone in viale dell’Astronomia non hanno lasciato il segno? Squinzi che ha esperienze dirette e vincenti sui mercati esteri dia una “sveltita” alla macchina senza curarsi di favorire questo o quel funzionario che vede in via Listz la sua pensione prossima o il canale a basso costo per portare in Fiera o in delegazione qualche azienda amica. Meglio creare un centauro (metà pubblico, metà privato) piuttosto che imbastire un ornitorinco.