Nell’hangar di una società di ingegneria mineraria in Gran Bretagna troneggia una macchina di 250 tonnellate: servirà a estrarre minerali dal fondo marino, a 1600 metri di profondità, inghiottendo le effusioni vulcaniche intensamente mineralizzate che salgono dagli abissi: i minerali in questione sono, oltre, all’oro, nickel, cobalto, rame, manganese e terre rare. Nella fattispecie, l’abisso si trova nel Bismarck Sea, al largo della Papua-Nuova Guinea, e la società che si accinge a operare questo mostro d’acciaio si chiama – e il nome è appropriato – Nautilus Minerals.
Un equivalente moderno della ‘corsa all’oro’ è la corsa per definire permessi di ricerca nelle piattaforme continentali, specialmente nel Pacifico centrale. Le povere micro-nazioni della Micronesia vedono schiudersi la possibilità di royalties lucrose. Dopo lunghi negoziati, la Nautilus ha venduto una quota del 30% dell’intrapresa al governo della Papua-Nuova Guinea.
La UN International Seabed Authority sta preparando le regole per le prospezioni e le estrazioni nelle acque internazionali. Ma i gruppi ambientali vogliono una moratoria su questi progetti, che possa permettere di studiare l’impatto ambientale. I sostenitori dicono invece che l’impatto è basso: i sedimenti disturbati dall’estrazione ricadono sul fondo e non salgono alla superficie, mentre questo tipo di estrazione non richede strade, ponti e trasporti su strada che contribuirebbero all’inquinamento.