I toni sono sereni e le firme autorevoli (da Casavola a Zagrebelsky, da Valerio Onida a Franco Gallo, da Cheli a Flick) ma il documento critico sulla riforma della Costituzione e del Titolo V sottoscritto da 56 costituzionalisti e giuristi, che anticipa il No al referendum di ottobre, non cancella la delusione per la mancata risposta di tanti illustri studiosi a quella che è e sarà la vera questione al centro della consultazione d’autunno e cioè: la recente riforma delle Costituzione, pur con tutti i limiti dovuti agli equilibri politici di un bizzarro Parlamento tripolare, è meglio o peggio dello status quo?
Come scriveva su “Il Sole 24 Ore” di sabato scorso il professor Roberto D’Alimonte, che è uno dei maggiori esperti di sistemi elettorali, “non esistono riforme perfette” e il criterio di valutazione che si ispira a modelli ideali è del tutto inadeguato, non solo perché ognuno ha il suo di modello ma perché non tiene conto dei limiti posti dal contesto politico e tende a sopravvalutare gli aspetti critici rispetto a quelli positivi della riforma. Ma ispirarsi ad astratti modelli ideali di riforma costituzionale è fuorviante anche per un altro motivo, che sembra sfuggire al documento dei 56 costituzionalisti e giuristi e che fa invece la differenza tra una discussione puramente accademica e un atto altamente significativo come la nuova Costituzione, e cioè che in politica contano i risultati concreti, che a loro volta dipendono dalla capacità di raccogliere attorno ad essi una maggioranza, senza la quale anche le migliori intenzioni restano solo lettera morta. Ecco perché il meglio è spesso nemico del bene e perché, specie in questo Parlamento, l’alternativa vera è tra il sognare le riforme senza riuscire a farle o il fare per davvero le riforme possibili, ancorché non perfette ma sempre perfettibili in un diverso e futuro contesto politico. Lo dice l’Abc della politica.
Sarà anche vero che, come dicono i 56 costituzionalisti critici, il Senato che esce dalla riforma è debole, che il regionalismo diventa meno autonomo e che il problema dei costi della rappresentanza non è tutto, ma aver ridotto le inutili sovrapposizioni tra Camera e Senato archiviando il bicameralismo paritario, aver accelerato e semplificato il processo decisionale del Parlamento, aver riportato al centro poteri di valenza nazionale come quelli sulla politica energetica e aver ridotto i costi della politica (niente elezioni dirette e niente indennità per i consiglieri regionali) sono i frutti di una buona scelta o no? Certamente sì, argomenta D’Alimonte, che saggiamente sostiene che “la riforma è un passo avanti per il sistema italiano”. Così come buone scelte sono, malgrado l’incomprensibile dissenso dei 56 costituzionalisti, l’abolizione delle Province e quella di un ente ormai inutile come il Cnel.
Ognuno può avere le idee che vuole sulla riforma costituzionale (e meno male che i 56 firmatari convengono almeno sul fatto che essa non è l’anticamera di un nuovo autoritarismo), ma guai a perdere di vista la vera questione centrale del prossimo referendum: meglio questa riforma o la conservazione dell’esistente? E’ questa la domanda vera della prossima consultazione ed è questa la domanda alla quale, al netto delle strumentalizzazioni di parte, ogni serio innovatore non può che rispondere con un chiaro SI’ alla conferma referendaria della riforma.