Il libro di Calabrò “La morale del Tornio” Università Bocconi Editore, mira innanzitutto a contrastare il generale pessimismo sulle nostre possibilità di ripresa, “questa diffusa ossessione del declino irreversibile” che ci sta trasformando in un popolo di depressi che tendono a vedere tutto nero e che godono solo quando possono trovare nei mezzi di informazione conferma delle loro fosche previsioni. Cosa che in effetti accade troppo spesso data la tendenza tutta italiana a denigrare noi stessi, al di là dei demeriti che pure ci sono.
Torniamo quindi all’impresa, in particolare all’industria manifatturiera dove possiamo vantare punti di forza straordinari e che possiamo valorizzare facendo appello alla particolare ricchezza culturale della nostra terra, al senso del bello e quindi del design che interiorizziamo fin dalla nascita, ai maestri del lavoro che affondano le loro radici nel grande artigianato medioevale, fino ad arrivare alle più moderne creazioni industriali italiane come quella della “multinazionale tascabile”. La fabbrica è un potente fattore di creazione e diffusione di cultura, ma nasce anche da una cultura diffusa che sa farsi impresa. In questo senso l’impresa come comunità ha un forte valore etico perché è il terminale di un fascio di relazioni che la legano ai vari attori sociali interni ed esterni. Tornare alla fabbrica vuol quindi dire fondare la ripresa della nostra economia su valori morali che possono unificare il corpo sociale e quindi dar luogo a quella “good economy”, e cioè a quel sistema altamente produttivo, ma solidale, basato su un buon equilibrio tra diritti e doveri ed in definitiva sulla responsabilità individuale e collettiva.
Calabrò ci guida lungo un suggestivo percorso di oltre 220 pagine in cui spiega come si possono valorizzare i nostri punti di forza e come invece si possono superare i vizi antichi e recenti della nostra società. L’obiettivo, centrato, è quello di dimostrare che il cambiamento, l’innovazione, conviene a tutti e che sbagliano quanti pensano di trovare vera protezione dentro le nicchie che in passato erano riusciti a costruirsi. Bisogna quindi aprirsi al mercato, ovviamente ben regolato e trasparente, perché contrariamente a quello che molti continuano a credere, il mercato è ben più morale della intermediazione politica che spesso offre doni luccicanti che poi si tramutano in pericolose delusioni. E questo vale anche per i proprietari delle imprese che devono bandire patti di sindacato e pratiche relazionali che troppo spesso hanno protetto i gestori dai loro fallimenti, danneggiando così le imprese e le comunità che intorno ad esse si erano formate.
Bisogna quindi liberare l’Italia da quelle che Guido Carli chiamò “le arciconfraternite del potere” che impediscono alla parte buona della nostra cultura di emergere completamente e quindi di plasmare una società sui principi base del merito, della fiducia, della buona reputazione, vincendo il vizio antico di passare da un eccesso all’altro: un periodo forcaioli, quello dopo massima tolleranza tanto “così fa tutti”.
Le ricette per attuare questo programma sono note: politica economica ed industriale che eviti sprechi ed eccessi di tassazione, una vera lotta alla corruzione basata non solo sulla repressione, ma soprattutto sulla prevenzione, una burocrazia che non deve servire solo a se stessa, come diceva Gaetano Salvemini, ma deve rispondere ai veri bisogni dei cittadini, una Giustizia vera e non solo mediatica, e così via. Ma per far tutto questo, cioè per creare un mercato efficiente, capace di valorizzare le nostre eccellenze nell’industria, come in altri campi, occorre uno Stato diverso e migliore di quello attuale che deve ritirarsi da alcuni settori (come le aziende che possono stare sul mercato) e badare con più efficienza ad altri, e quindi delle istituzioni capaci di selezionare una classe politica diversa da quella del recente passato (ma ancora molto presente nel sistema), che sembrava dedita solo a curare i propri affari. Non so se sono le buone istituzioni che creano una buona cultura diffusa, o se viceversa è la cultura generale che crea le istituzioni a propria immagine. Forse le relazioni vanno nei due sensi. Ma nel concreto, dovendo iniziare rapidamente a modificare i nostri comportamenti, credo sia necessario partire dalle istituzioni e dalla necessità di fare leggi che incoraggino certi comportamenti dei cittadini, penalizzando quelli che sono i vizi che abbiamo accumulato nel corso degli anni.
L’informazione, ad esempio può migliorare, se si libera la Rai dalla sudditanza dei partiti e se invece di incentivare le testate politiche, si apre il mercato a veri investitori nel settore, assicurando un generale contenimento dei costi. Poi non si deve sottovalutare il ruolo della buona finanza per lo sviluppo delle imprese mentre oggi si tende a demonizzare un po’ tutte le banche , comprese quelle italiane che hanno fatto poche speculazioni e che sono andate in crisi perché hanno dato troppo credito ad imprese che non lo meritavano.
Fondamentale deve essere poi un profondo cambiamento nella mentalità e nel ruolo dei sindacati. Occorre passare dal conflitto ideologico alla collaborazione. Occorre che la nuova fabbrica possa contare sulla partecipazione attiva dei lavoratori e sulla assunzione di responsabilità da parte loro nella gestione efficiente del processo produttivo. Si tratta di un cambiamento radicale rispetto al concetto dell’operaio massa e della lotta contro il padrone. Per cambiare la cultura del sindacato ci voglio anche nuove regole che spingano verso la cooperazione e che tendano a raffreddare i conflitti.
Il libro di Calabrò dimostra che il ritorno alla manifattura non solo è possibile, ma è anche l’unica strada che l’Italia può percorrere per riprendere un sentiero di sviluppo che sia morale, socialmente equo e sostenibile. La cultura ha il compito di spiegarlo, di dare alle persone punti di riferimento certi, come questo libro fa con particolare perizia, di riportare al centro dell’attenzione l’industria ed i suoi valori. Oggi lavorare in fabbrica appare in fondo alla scala dei desideri dei nostri giovani. Ed invece le fabbriche moderne (le neofabbriche), non hanno nulla a che vedere con i capannoni neri e fumanti dei film della prima metà del secolo scorso, e quindi andare in fabbrica deve tornare ad essere di moda, fare status.