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La mina vagante delle pensioni non è meno insidiosa del Superbonus: ineludibile una riforma che guardi al futuro

Oltre al Superbonus 110% vengono al pettine per i conti pubblici tutte le spericolate concessioni dei Governi Conte. Per governare la spesa previdenziale serve una pluralità di interventi capaci di dimenticare lo specchietto retrovisore e di guardare alle nuove generazioni. Ecco come

La mina vagante delle pensioni non è meno insidiosa del Superbonus: ineludibile una riforma che guardi al futuro

Per salvare i conti, al ministro Giorgetti non basta tenere a bada – con grandi difficoltà – il Superbonus del 110%. Sull’orizzonte della finanza pubblica si staglia un altro superbonus (in tema di pensioni), se vogliamo meno appariscente nell’immediato, ma destinato a produrre danni più a lungo, perché – come abbiamo visto – la ristrutturazione che si avvale del famelico Superbonus riguarda una parte minoritaria degli edifici; mentre con le pensioni si finisce prima o poi nel tinello di tutte le famiglie italiane.

Del Superbonus minor Giorgetti porta una notevole dose di responsabilità, essendo stato sottosegretario della presidenza del Consiglio nel Governo che varò il decreto numero 4 del 2019: il provvedimento delle identità giallo-verdi, che in attuazione del contratto di governo tra Salvini e Di Maio (Conte stava ‘’nella vigna a far da palo) conteneva oltre al reddito e alla pensione di cittadinanza, anche un massiccio intervento sulle pensioni: Quota 100, sperimentale fino a tutto il 2021, il blocco dei requisiti dell’anticipo (42 anni e 10 mesi per gli uomini e un anno in meno per le donne) fino al 31 dicembre 2026.

Quel pacchetto si aggiunse agli interventi che dalla sua entrata in vigore avevano martoriato la riforma Fornero: dalla telenovela degli esodati, alle misura alternative di uscita anticipata dal lavoro, fino al regime delle quote.

Itinerari previdenziali, nel suo XI rapporto, ha calcolato che dal 2012 (l’anno di entrata in vigore della riforma del 2011) i Governi che si sono succeduti – tra provvedimenti di “salvaguardia”, (ben 9 per i cosiddetti esodati, una categoria inventata e sostenuta dai talk show), norme sui precoci, i lavori gravosi, l’Ape sociale, opzione donna e altre agevolazioni – hanno permesso di accedere al pensionamento con i requisiti vigenti prima della riforma Fornero a circa 837.000 lavoratori a tutto il 2022, escludendo da tale calcolo le pensioni anticipate (quelle con anzianità bloccata a 42 anni e 10 mesi per i maschi e 1 anno in meno per le donne, poiché l’anticipo reale fu solo di 3 mesi). Considerando anche i prepensionamenti vari concessi a particolari categorie quali i giornalisti, i beneficiari dei fondi esubero per le banche e le assicurazioni, l’Isopensione e i contratti di espansione, ( quasi totalmente a carico delle imprese e non dello Stato) si arriva ad un totale dei beneficiari pari ad oltre 900mila unità che si aggiungono ai pensionamenti anticipati ordinari ovvero alla questione critica di carattere strutturale del sistema che tale rimane anche senza ulteriori rilevanti anticipi.

Il costo per lo Stato nel decennio 2012-2022 è stato pari a 48,3 miliardi su 86 miliardi di risparmi di spesa previsti a regime dalla riforma Fornero. Nel triennio 2019-2022 la spesa sostenuta per i pensionamenti per Quota 100 è stata di 17,3 miliardi rispetto ai circa 21 miliardi previsti a fine 2022 i beneficiari sono stati 445.000 circa, mentre i costi che si dovranno sostenere fino all’esaurimento degli effetti di anticipo della prestazione, previsti per fine 2027, sono pari a 9,5 miliardi circa; costi che si devono sommare a quelli spesi fino al 2021 per un totale di 21,4 miliardi circa contro i 48,58 miliardi previsti nel decreto.

Poi vi è stato, con l’avvento dei Governi Draghi e Meloni fino alla legge di bilancio per l’anno in corso, una svolta, nel senso che – lo dimostrano i numeri – le quote sono state usate, non per fare un’abbuffata (peraltro riuscita solo in parte) di pensioni anticipate, ma per rallentare il processo con una soluzione ponte verso il ripristino della disciplina del 2011, nel cui alveo il sistema è destinato a tornare, quando dal 1° gennaio 2025 si concluderà con due anni di anticipo il blocco del trattamento di anzianità e ripartirà il collegamento tra l’incremento dell’attesa di vita al requisito contributivo. Del resto è stato il ministro Giorgetti in occasione del suo intervento al meeting di Rimini ad avvertire che il re era nudo ovvero che nessuna riforma sarebbe stata possibile con gli attuali andamenti demografici oppressi dall’invecchiamento e dalla denatalità.

Non può reggere un sistema in cui continueranno ad aumentare il numero dei pensionati delle generazioni del baby boom, che arrivano al traguardo in condizioni da anziani/giovani, portatori di una storia lavorativa e contributiva lunga e ininterrotta che consentirà loro di godersi il trattamento per almeno un paio di decenni, in proprio, e per altri anni da parte dei titolari della reversibilità (in particolare le vedove); mentre sul versante di chi paga le platee continuano a ridursi per un motivo banale ma ineludibile: i rimpiazzi non sono adeguati perché, a suo tempo non sono nati.

Da qui la necessità di un cambiamento dell’attuale logica contributiva, che introduca nel sistema elementi di tipo non corrispettivo ma solidaristico, diretti all’obiettivo di permettere pensioni adeguate, recuperando il disegno originale del processo di riforma, nel quale le due componenti, pubblica e privata, erano incluse nel medesimo disegno di riordino e tendevano a fornire una risposta integrata ed equipollente a quella che, prima delle riforme era garantita dal sistema pubblico.

Data pensionamentoTipo di previdenzaAnni di contribuzioneDipendenti privatiDipendenti pubbliciAutonomi
2000Previdenza pubblica3567,368,664,4
2000Previdenza integrativa0000
2000Totale67,368,664,4
2010Previdenza pubblica3567,168,164,7
2010Previdenza integrativa104,694,694,69
2010Totale71,7972,7969,39
2020Previdenza pubblica355658,941,2
2020Previdenza integrativa209,49,49,4
2020Totale65,468,350,6
2030Previdenza pubblica3549,649,630,7
2030Previdenza integrativa3014,4614,4614,46
2030Totale64,0664,0645,16
2040Previdenza pubblica3548,548,529,4
2040Previdenza integrativa3516,7316,7316,73
2040Totale65,2365,2346,13
2050Previdenza pubblica3548,148,129,2
2050Previdenza integrativa3516,7316,7316,73
2050Totale64,8364,8345,93

Occorre tornare alle origini e rimuovere le condizioni per chi la linea dei due pilastri (uno pubblico a ripartizione ed uno privato a capitalizzazione) non ha funzionato nel realizzare l’obiettivo strategico che era stato assunto nel 1995 con la riforma Dini.

Come si vede nella tabella, nel caso del lavoro dipendente (per quello autonomo sarebbero necessarie altre considerazioni) la previdenza complementare avrebbe dovuto assicurare – a determinate condizioni di contesto- un ruolo integrativo, rivolto ad assicurare tassi di sostituzione sostanzialmente equipollenti a quelli assicurati, prima e in teoria, solo dal modello pubblico.

Nello specifico, per la previdenza privata veniva ipotizzata un’aliquota di contribuzione pari al 9.25% della retribuzione, equivalente, per i dipendenti, alla devoluzione dell’intero Tfr (6.91%) e di contributi aggiuntivi pari al 2.34%, ugualmente suddivisi fra datore di lavoro e lavoratore (dati medi rilevati dalla Covip nel 2001 per i nuovi assunti aderenti ad un fondo negoziale); veniva considerato un tasso di rendimento reale dei fondi pensione al netto delle spese amministrative e gestionali del 2.5%; veniva assunta una conversione in rendita del 100% del capitale maturato con reversibilità del trattamento (con aliquota del 60% e differenza di 3 anni fra dante causa maschio e coniuge -l’opposto nel caso di dante causa femmina). L’ingresso nel fondo veniva ipotizzato al 1° gennaio 2000 tranne per i casi di pensionamento nel 2040 e 2050.

A regime, alle condizioni ipotizzate, era previsto un tasso di sostituzione di circa il 17%. Ma la previdenza complementare è come un albergo in cui l’ospite trova solo quello che ci porta. Come abbiamo visto nella tabella sarebbe necessario un finanziamento che sfiori il 10% della retribuzione per produrre – nel contesto delle condizioni ipotizzate, un tasso di sostituzione che sia in grado di integrare quello del trattamento pubblico in misura adeguata. Nel caso ipotizzato l’obiettivo è reso possibile dal conferimento del Tfr maturando, assunto come forma prevalente di finanziamento a costi ampiamente sostenibili da parte dell’impresa, mentre il lavoratore acquisisce l’esigibilità di risorse normalmente destinate ad essere liquidate solo alla risoluzione del rapporto di lavoro.

Ma vi sono casi nelle varie forme di lavoro autonomo e parasubordinato nelle quali questo istituto contrattuale non è previsto. In questi casi la contribuzione obbligatoria sottrae gran parte della base economica disponibile a programmare un maggiore reddito futuro, al momento della quiescenza. E’ questo uno dei motivi per i quali i lavoratori più giovani non aderiscono a quelle forme di previdenza complementare che, in teoria, erano state pensate nel loro interesse. Sia con riguardo alla previdenza pubblica che a quella privata, il legislatore del 1995 aveva in mente destinatari appartenenti al modello di lavoro standard.

L’istituzione della Gestione speciale del lavoro parasubordinato (con un’aliquota del 10%) era rivolta prioritariamente ad assicurare all’Inps delle entrate nella logica del bilancio unitario, piuttosto che a prefigurare una tipologia adeguata di tutela previdenziale.

Ecco perché, man mano che si consolida il sistema contributivo, dopo la svolta del 2012 con l’estensione pro rata a tutto il mondo del lavoro, si pone il problema di una riforma che guardi al futuro e non si limiti, come è stato fatto fino ad ora anche attraverso gli interventi di maggior impatto riformatore, a proiettare sullo scenario delle generazioni future la medesima impostazione delle regole applicate a quelle precedenti.

Un nuovo modello previdenziale obbligatorio dovrebbe essere costituito su due componenti: una prestazione pensionistica di base finanziata dal fisco, secondo la logica universalistica, destinata a garantire a tutti i cittadini anziani bisognosi prestazioni adeguate alle esigenze di vita; un secondo livello, di tipo contributivo puro, o addirittura costituito su risorse gestite a capitalizzazione, garantirebbe prestazioni aggiuntive correlate ai contributi versati dai singoli soggetti nel corso della loro vita (anche questo secondo pilastro avrebbe rilievo generale e, quindi, carattere obbligatorio).

Resterebbe la possibilità di pensioni complementari volontarie costruite nelle forme attuali, aggiornate e sostenute da agevolazioni fiscali più adeguate. Se, a questo punto, va riconosciuto che la scelta di destinare il Tfr al finanziamento della previdenza a capitalizzazione ha fornito (al di là delle modalità disposte) un contributo importante ad assicurare una base economica significativa allo sviluppo di questo settore privato, in buona sostanza tale scelta ha finito per delimitare le platee dei possibili utenti. Come superare questi limiti? In quale modo può essere sostituito il finanziamento tramite conferimento del Tfr a beneficio di quelle categorie che non ne dispongono?

Alle esigenze sopradescritte (ma la disciplina meriterebbe un’applicazione più generale) apriva una prospettiva programmatica, la riforma Fornero che affidava ad una Commissione di esperti incaricata di proporre, entro il 2012, “eventuali forme di decontribuzione parziale dell’aliquota contributiva obbligatoria verso schemi previdenziali integrativi in particolare a favore delle giovani generazioni”.

È questa un’altra idea che la professoressa Elsa Fornero ha consegnato al ministro Elsa Fornero. Sul piano tecnico il procedimento è definito di opting out. Si tratterebbe di consentire ad un lavoratore, in particolare se giovane e privo di un rapporto di lavoro dipendente (quindi nell’impossibilità di avvalersi del Tfr per aderire ad un fondo), di destinare al finanziamento di una forma di previdenza complementare una parte della sua contribuzione obbligatoria.

Potrebbe in questo modo, se lo ritenesse, distribuire il proprio rischio previdenziale su di una quota pubblica a ripartizione ed una privata a capitalizzazione, senza dover sostenere maggiori oneri (l’esperienza pratica dimostra che i giovani non si accostano ai fondi pensione proprio perché non dispongono di ulteriori risorse rispetto a quelle che sono tenuti a versare alle gestioni obbligatorie).

Mediante le soluzioni di opting out si otterrebbe certamente una copertura pubblica inferiore, ma sarebbe possibile ottenere rendimenti più generosi sui mercati. L’operazione non è semplice e contiene qualche rischio (in termini di minori entrate per il sistema pubblico), tanto che la norma prevedeva un concerto con gli enti gestori di previdenza obbligatoria e con le autorità di vigilanza operanti nel settore della previdenza.

Questa prospettiva, appena delineata a suo tempo, si collocherebbe oggi in un diverso scenario: quello di un intervento importante sul piano della cosiddetta decontribuzione ovvero al taglio di 6/7 punti del cuneo contributivo caratterizzato essenzialmente due aspetti specifici: il limite posto a livello dei 35mila euro con il venir meno, al superamento della soglia, del taglio contributivo e la perdita conseguente di salario netto e, a livello più generale, sulla divisione che si è posta a 35mila euro tra lavoratori meritevoli di una tutela così ampia e lavoratori per i quali questa tutela non è ritenuta necessaria, anche in relazione al contributo dei due diversi aggregati di lavoratori al versamento dell’Irpef.

Questo ragionamento ci conduce direttamente alla sostenibilità di un’ipotesi (volontaria?) di opting out, nel senso che, l’ammontare delle risorse coperte dalla fiscalizzazione e dirottate in busta paga potrebbero divenire la base economica di un’adesione alle forme di previdenza privata, per quanti non dispongono del Tfr; la convenienza dell’operazione deriverebbe dal diverso trattamento fiscale a cui sarebbero sottoposte le risorse derivanti dalla decontribuzione se confluite in busta paga o destinate alla previdenza privata.

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