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La lingua italiana cambia ma è anche più inclusiva o no? La controversa questione del plurale promiscuo

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Da alcuni anni, la società italiana ha preso a cambiare a ritmo accelerato, e cose prima socialmente tabù si fanno ormai alla luce del sole. Con le solite contraddizioni: c’è chi si indigna per certe manifestazioni e promette di tutelare i giovani, questi ultimi stanno ore su Instagram a discutere proprio di parità e diritti. Con qualche effetto anche sulla lingua. 

E si tratta di un effetto che ha aperto un dibattito non proprio irrilevante e che va al cuore di una questione che sta interessando tutti gli ambiti linguistici, quello della riforma della lingua per portarla nella direzione della inclusività. 

goWare è lieta di proporre un nuovo interessante contributo del glottologo Daniele Vitali che rivolge la sua attenzione a questo tema e discute le varie proposte che sono emerse per iniziare a spostare la lingua scritta e parlata all’interno del terreno della inclusività. A questo primo contributo ne seguirà un secondo domenica prossima.

Succede sui social

Sappiamo bene che sulle reti sociali imperversano gli agenti della disinformazione coi loro eserciti di troll, ma sappiamo pure che tali reti possono servire a scambiare idee di cambiamento positivo, con visibili effetti sull’atteggiamento delle giovani generazioni verso la diversità. Naturalmente, si tratta di un processo impetuoso, in cui succedono tante cose, e non è detto che tutti ci si ritrovino sempre, anche perché a volte sembra di entrare in un mondo parallelo col suo linguaggio iniziatico.

Abbiamo così il body shaming e la body positivity, il cat calling e le survivor, gli incel e gli hikikomori, i gender fluid e i maschi cis, l’ageismo e il patriarcato, fino a chi scrive “car* tutt*” o “carə tuttə” per indicare la compresenza dei due sessi, ossia per segnalare che si sta rivolgendo contemporaneamente a uomini e donne. 

Come è giusto al plurale?

Secondo costoro, dire o scrivere “cari tutti”, ossia utilizzare una formulazione che suona maschile per indicare un pubblico che potrebbe anche essere misto, sarebbe sessista: infatti, l’uso di questo “plurale sovraesteso” o “generalizzato”, o “promiscuo” escluderebbe le donne, perpetuando così la dominazione patriarcale di un sesso sull’altro.

Nell’agosto 2021, un personaggio pubblico come Michela Murgia ha iniziato a usare la vocale ə secondo un ideale manifesto per cui il linguaggio andrebbe modificato a tavolino al fine di rispecchiare i tempi moderni e, udite udite, cambiare le mentalità. 

Sono seguite varie reazioni, come quella pratica di Flavia Fratello e quella arguta e intelligente di Roberto Mercadini

Nel frattempo, la questione è un po’ passata di attualità ma, per quanto sia ormai chiaro che non saranno l’asterisco e la o lo schwa a sfondare il soffitto di cristallo sgretolando il patriarcato, vale la pena di soffermarsi sulla questione, poiché chiama in causa alcuni principi fondamentali del linguaggio inclusivo o politicamente corretto. Quest’ultimo, al contrario di certe mode, venuto per restare, o almeno così si spera.

Dall’asterisco alla schwa

Partiamo dall’asterisco. Non so se siate capaci di seguire uno scritto del tipo “Car* amic*, vi presento * nostr* bravissim* artist*: acrobat*, trapezist*, attor* e musicist* che vi riporteranno a quando eravate bambin*, scolar* e student*”, però sarei abbastanza certo che non sappiate come tenere un discorso del genere ad alta voce. E questo, direi, chiude la questione: la maggior parte delle nostre interazioni verbali essendo di tipo orale, e non scritto, un linguaggio inclusivo che non si può usare oralmente non par risultare di soverchia utilità.

Passando alla schwa, andrà anzitutto spiegato di cosa si tratta: concetto ben noto a chi si occupa di fonetica, era infatti del tutto ignoto al grande pubblico, tanto che la stessa Flavia Fratello nel video sopra consigliato la chiama “sciùa” /’ʃua/. 

Ebbene no: si dice schwa /ʃ’wa/ o /ʃ’va/, un tempo italianizzato in scevà /ʃe’va/, ed è il nome di una lettera dell’alfabeto ebraico che, agli albori della linguistica, si usava per indicare una vocale centrale di media apertura. 

Come dice la descrizione, non essendo vocale aperta come a, chiusa come i ed u, anteriore come i ed e né posteriore come u ed o, configura in pratica una “vocale intermedia” del tutto assente dall’italiano, che ha solo sette fonemi vocalici tutti periferici (7 e non 5 come nella grafia, perché e, o possono essere aperte o chiuse: i fonemi vocalici dell’italiano sono dunque /i, e, ɛ, a, ɔ, o, u/). 

Oggi questo suono si indica col simbolo [ə] dell’Alfabeto Fonetico Internazionale e non c’è più bisogno di scrivere schwa, scevà o “vocale intermedia” o “indistinta” ma, proprio perché la comunicazione scritta deve poter farsi orale ove necessario, chi voglia dare un nome al suono può tuttora parlare di schwa, restando inteso che non ci si riferisce alla lettera ebraica ma alla vocale centrale di media apertura.

Dall’inglese al napoletano

Il fatto che si parlasse di schwa già prima del dibattito sul linguaggio paritario è dovuto alla presenza del suono [ə] in altre lingue: ad esempio, l’inglese presenta ben due “suoni di tipo schwa”, ossia il breve /ə/ [ə], non accentato, che troviamo in about /ə’baʊt/ “circa”, e quello più basso e lungo /ə:/ [ɜ:], accentato, che si usa in inglese britannico per dire bird /’bə:d/ [‘bɜ:d] “uccello” (non così negli USA, dove si pronuncia [‘bɹ:d] con r sillabica).

Il suono [ə] è anche presente in molti dialetti, fra cui il napoletano, che pronuncia allo stesso modo tutte le vocali non accentate finali di parola. In pratica, laddove l’italiano ha 4 possibili vocali finali non accentate (/i, e, a, o/, perché /u/ in quella posizione non c’è), il napoletano ne ha solo una: all’italiano “gatti, gatte, gatta, gatto” corrisponde in dialetto partenopeo sempre e solo /’gattə/.

Me ne accorsi da ragazzino, seguendo alla televisione i film tratti dal libro “Così parlò Bellavista” di Luciano De Crescenzo, e quindi credevo fosse nozione arcinota, finché non vidi su un muro di Napoli la scritta BERLUSCO’ MAGNT O CAZZ. Si direbbe che l’anonimo estensore del boccaccesco invito, oltre a non essere un fervido ammiratore del Cavaliere, non avesse in grande considerazione nemmeno la schwa: io infatti, se mi fosse mai venuto in mente di imbrattare un muro, avrei scritto piuttosto BBERLUSCO’, MÀGGNƏTƏ O CAZZƏ.

Le relazioni pericolose tra grafia e fonologia

Perché accade ciò? Come mai il dialetto più noto che possiede /ə/ è scritto dai parlanti come se fosse privo di vocali non accentate? Qui entra in gioco una questione non più fonetica ma “psico-fonologica”, che riguarda cioè il modo in cui i parlanti concepiscono la lingua. 

Il suono /ə/ non fa parte del sistema fonetico e fonologico italiano, per cui non c’è una lettera per scriverlo. Ora, molti dialetti vengono scritti solo con i segni usati in italiano, per cui quelli con schwa si trovano di fronte a un bel problema. 

All’inizio del Novecento, Eduardo De Filippo decise di scrivere gatti, gatte, gatta, gatto come in italiano, lasciando al lettore napoletano la pronuncia corretta. La cosa poteva funzionare solo negli ambienti dialettofoni abituati all’uso scritto del dialetto, ed è per questa ragione che non funziona più oggi: impossibilitati a scrivere come in italiano perché altrimenti non starebbero scrivendo in napoletano, e non potendo ricorrere a un segno speciale per mancanza di competenze tecniche, i parlanti odierni usano l’apostrofo o proprio nulla. In linguistica si direbbe che “usano un grafema zero”.

Il futuro della schwa

Questo fatto, data la dipendenza dalla grafia che ha la maggior parte della popolazione quando si tratta di ragionare sulla pronuncia, fa sì che il napoletano medio sia inconsapevole di avere /ə/ nella propria lingua: il grafema zero è creduto fonema zero. Posso provare quest’affermazione tramite un meme che ho visto l’anno scorso su Facebook proprio in coincidenza del dibattito nazionale sull’opportunità di usare schwa in italiano al fine di renderlo meno sessista: con queste premesse, dato che nemmeno chi sa pronunciare la schwa ne capisce la distribuzione, non sembra che la nostra lettera paritaria sia avviata verso un luminoso avvenire. Ma ci sono altri punti di perplessità. Ad esempio, poiché la schwa in napoletano si usa anche al singolare, mentre in italiano non si usa mai, ricorrervi per indicare la compresenza dei sessi non sarebbe parlare napoletano e non sarebbe parlare italiano.

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Daniele Vitali, bolognese, è stato per anni traduttore alla Commissione europea. Ha al suo attivo vari lavori di glottologia su lingue e dialetti, fra cui “Ritratti linguistici: il romeno” (Inter@lia 2002), “Parlate italo-lussemburghese? Appunti sulla lingua degli italiani di Lussemburgo” (Inter@lia 2009), “Pronuncia russa per italiani” (con Luciano Canepari, Aracne 2013), nonché il grande “Dizionario Bolognese-Italiano Italiano-Bolognese” (Pendragon 2007 e 2009, con Luigi Lepri), “Dialetti emiliani e dialetti toscani. Le interazioni linguistiche fra Emilia-Romagna e Toscana” (Pendragon 2020) e “Mé a dscårr in bulgnaiṡ. Manuale per imparare il dialetto bolognese” (Pendragon 2022).

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Categories: Cultura