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La legge sulle spa è da riformare: ecco perchè

La società per azioni ha due facce: responsabilità limitata al conferimento ed incorporazione nelle azioni delle quote di partecipazione. Ciò la rende strumento per il finanziamento dell’impresa con la raccolta del risparmio diffuso e strumento di concentrazione di potere.

L’esperienza, ormai secolare, ci indica come punto di partenza il controllo sulla società, da affidare agli interessi privati coinvolti, in assenza o con il concorso dell’Autorità. Ne seguono differenti configurazioni. La prima richiede la sofisticazione del diritto privato e dei rimedi diffusi in difesa dell’azionista: il controllo sulla gestione è affidato al mercato, si rafforza l’efficace disciplina della concorrenza, nel rispetto della regola del fallimento dell’impresa inefficiente.

La via alternativa consiste nell’intervento pubblico, proprio delle economie cosiddette miste: lo Stato partecipa mediante controllo, diretto o indiretto, delle fonti di finanziamento, così da modulare, secondo le condizioni dell’economia, il vincolo che fisiologicamente astringe l’impresa nella concorrenza e nel rischio di insolvenza.

La disciplina del codice era soddisfacente per le società famigliari, a ristretta base azionaria. Non a caso, in linea con l’insegnamento di Tullio Ascarelli, le proposte e gli interventi legislativi degli anni ’60-‘70 riguardavano le società a diffusa base azionaria. La Riforma del 2003, invece, è intervenuta profondamente proprio sulla disciplina comune (per quanto gli interventi più significativi riguardino le maggiori società soggette anche alle regole dei mercati finanziari).

Tra le novità della Riforma ricordiamo in primo luogo la concentrazione della gestione nell’amministratore delegato. Tale scelta politica, assecondata dalla legislazione speciale, con l’eccezione – per ora debole – delle società bancarie, è conseguenza dell’affievolimento dei controlli sul gestore. Si considerino, in proposito, la formale soppressione del dovere di vigilanza del consiglio, che ridistribuisce l’onere della prova della negligenza colpevole e favorisce l’inerzia dei consiglieri, e l’indebolimento del divieto per l’amministratore di decidere in conflitto d’interessi con l’eliminazione della relativa sanzione penale. Così, da un lato, il regime penale è stato seriamente compromesso, dall’altro, non si è colta l’occasione di rafforzare il presidente del consiglio, facendone esponente indipendente dal delegato, dotato di organizzazione, potere informativo e controllo anche nel merito (è stata respinta la proposta in tal senso dell’on. Bruno Tabacci).

Sempre con l’effetto di rafforzare la posizione del consiglio, del delegato e, in definitiva della maggioranza che lo sostiene, la Riforma ha ridimensionato le competenze dell’assemblea ed affievolito i diritti dell’azionista (partecipazione, impugnazione delle delibere assembleari e risarcimento del danno).

Peraltro, riservando le principali protezioni agli azionisti con voto, ha lasciato gli altri in balìa delle maggioranze di controllo – anche assai ridotte rispetto all’ammontare del capitale sociale -, che gestiscono a rischio di tutti i soci, anche di quelli senza voto o con voto limitato (lo squilibrio potrebbe essere ancor più grave con gli apporti dei c.d. strumenti finanziari di cui però non abbiamo esperienza).

Risultano valorizzati i patti di sindacato di voto, che favoriscono la formazione di apparati stabili per il controllo di gruppi di società; la disciplina delle deleghe di voto, curiosamente più rigida per le società famigliari, è connotata da regole confuse e lacunose che nei fatti consentono agli azionisti di controllo l’incetta dei voti; è limitata l’apertura all’azione di responsabilità “derivata” nei confronti dell’amministratore, così come di scarsa portata è l’azione a favore del socio di società controllata contro la capogruppo per abuso di dominio; l’accentramento di poteri nel delegato è poi rafforzato nel sistema duale (cd. dualistico).


Allegati: La riforma del diritto societario – la relazione di Gustavo Visentini

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