Non ci saranno solo gas e armamenti nelle future politiche industriali comunitarie: lo scenario da guerra fredda ha rimesso nella lista prioritaria anche la sostenibilità della catena europea di approvvigionamento alimentare. Dopo l’invasione in Ucraina, una parte dell’Europa si è infatti scoperta assai fragile anche in fatto di cibo.
Mattia Pedon siede nel cda della Pedon Spa, uno dei big player mondiali nel mercato di cereali, legumi e semi. Ha iniziato la sua carriera in Cina nel 2010, prima a Tianjin e poi a Dalian, lavorando per l’Agricultural Commodities Supplies, una controllata del gruppo attiva nella selezione dei legumi. Parla perfettamente il mandarino e conosce il cantonese; si è laureato in International Economy and Trade all’università di Guangzhou. Da quest’anno ha assunto la carica di direttore acquisti del colosso cerealicolo che ha sede a Molvena nel comune vicentino di Colceresa.
Il collegamento con la Cina non è casuale, perché dall’altra parte del mondo per ovvie questioni demografiche e di retaggio storico, la politica di approvvigionamento alimentare ha assunto negli ultimi decenni un valore strategico nell’economia nazionale.
«In Cina la centralità della politica delle scorte alimentari è così importante da poterla toccare quasi con mano. Nelle città in cui ho vissuto, per esempio a Tientsin dove c’è uno dei più grandi porti agricoli del mondo, ci sono file interminabili di capannoni di soia, riso e semi di girasole. Sono le riserve strategiche del governo organizzate a livello regionale e municipale».
Cosa sta succedendo a livello globale?
«Sulle materie prime alimentari e agricole c’è molto nervosismo. Tante le motivazioni: il rincaro dei fertilizzanti e dell’energia, filiere estere a rischio geopolitico, annate difficili a causa del cambiamento climatico ed un’agricoltura che in molti settori non ha avuto incentivi sufficienti per rinnovarsi».
Nel vostro specifico settore?
«Operiamo principalmente nel mercato di legumi, cereali (non grano) e semi oleosi. Il nervosismo come detto è grande e in alcune “rotte” di trasporto, penso al Kazakistan per i semi, si stanno riscontrando grossi ritardi ed un aumento importante dei costi. Se si interrompe l’import da Russia e Ucraina ci accingiamo ad un enorme deficit di grano, girasole, mais e soia. Tradotto: i contadini europei cercheranno di piantare di più questi prodotti e meno i prodotti di nicchia, come i legumi e i cereali diversi dal grano».
La globalizzazione, così come concepita negli ultimi trent’anni, sembra destinata a congelarsi. Cosa cambierà nella geopolitica del cibo?
«Sono scenari che si legano alle dimensioni e alle disponibilità di terreni agricoli nei diversi continenti. In Italia e in Europa non ci sono le praterie di Canada, Argentina o Uruguay. Se dal mercato europeo dovesse uscire la Russia sarebbe un problema nel breve periodo. Sostituibile comunque nel medio, lungo termine. Deve essere chiaro: per le esigenze del mercato europeo non possiamo avere in mente una economia agricola “dell’orto”. Esistono certo le nicchie di mercato e poi esistono le colture gestite con gli aerei e i trattori a guida autonoma».
Chi ha la taglia per sostituire la capacità agricola della Russia?
«Nel breve come detto nessuno, valgono gli stessi ragionamenti del gas. Al momento non siamo indipendenti, né in Italia né in Europa. Si tenga conto che l’agricoltura si organizza in cicli e raccolti. La dipendenza, anche parziale, dalla Russia sarà inevitabile almeno fino al raccolto del 2023. Da settembre di quell’anno si potrà sostituire la Russia per alcuni prodotti. Dalla Russia noi importiamo lino, materia prima che è in grado di produrre anche il Kazakistan. Dall’Ucraina importiamo semi di girasole, produzione di cui anche la Bulgaria potrebbe aumentare molto la produzione».
Le dinamiche dei prezzi sul vostro specifico mercato quale cronologia degli avvenimenti hanno seguito?
«Per i nostri prodotti questa è la terza annata sfavorevole. La prima conseguente al picco di consumi inaspettato dopo i lockdown europei e mondiali che fecero volare i prezzi e lasciarono i mercati vuoti. La seconda caratterizzata da una riduzione della produzione per problemi metereologici in quasi tutto il nostro emisfero. Arriviamo ai giorni nostri con i problemi geopolitici di prezzi, logistica ed energia».
Ci sono rischi concreti per la catena degli approvvigionamenti?
«Nei nostri prodotti tendo ad escludere questa possibilità, sicuramente per determinate varietà ci potranno essere dei problemi, ma è il nostro lavoro anticiparli. Tutti quelli che compravano prodotto coltivato da Russia ed Ucraina sono costretti a trovare una alternativa. Lo stesso per chi vendeva prodotto verso la Russia».
La tecnologia occidentale potrà supportare la ritirata dalla dipendenza agricola russa?
«Le faccio un esempio: un’azienda agricola con cui abbiamo un contratto di partnership utilizza i droni per rilasciare uova di insetti antagonisti nei campi di mais popcorn. La tecnologia c’è, ma si può fare molto di più. Solo adesso, in tempo di guerra, ci rendiamo conto di quanto sia strategica l’agricoltura e la sua filiera. Finora l’Europa, anche a causa della dimensione media delle sue coltivazioni agricole, si è organizzata in una sorta di agricoltura di élite o da boutique. La prossima politica agricola comune europea avrà forse ben altra rilevanza. Dopo 50 anni di pace non si sentiva più l’importanza di pensare ad un piano di riserve strategiche nella catena di produzione del cibo».