Chi è Martin Wolf
Martin Wolf è il chief commentator economico del Financial Times. Wolf ha avuto una formazione da economista, ma ha deciso di dedicarsi al giornalismo. Il magazine Foreign Policy lo ha collocato tra i 100 maggiori pensatori globali del nostro tempo. Lawrence H. Summers, già rettore di Harvard, capo economista della World Bank e ministro del tesoro nell’amministrazione Clinton, lo ha definito “il più preminente giornalista economico del mondo”.
Uno dei temi cari a Martin Wolf è il ruolo della Cina nel mondo contemporaneo. Continuamente torna sul tema di quale rapporto le democrazie occidentali debbano instaurare con il grande paese asiatico sul piano economico, politico e del soft power. Una questione di stringente attualità verso la quale il giornalista della testata di Londra esprime la posizione più coerente nel panorama degli osservatori e degli studiosi occidentali.
Nel contributo che vi proponiamo, affronta il tema delicatissimo della proprietà intellettuale e di come tutelarla di fronte alla sfida, non sempre corretta, della Cina. Non è certo un mistero, in primo luogo per i cinesi, che la nuova leadership cinese miri esplicitamente all’egemonia mondiale. Questa dovrebbe verificarsi in primo luogo nel campo della intelligenza artificiale e dei beni immateriali, fondati sulla conoscenza e sul know-how.
L’idea di usare la proprietà intellettuale per frenare la Cina è un’idea sbagliata e foriera di conseguenze disastrose sull’innovazione e lo sviluppo delle stesse economie occidentali. Ci deve essere un’altra strada, dice Wolf. Per scoprire quale, vi invitiamo a leggere in traduzione italiana questo suo recente intervento sul Financial Times. Buona lettura!
La lezione della storia
Cosa hanno in comune la carta, la stampa a caratteri mobili, la polvere da sparo e la bussola? Hanno in comune che sono invenzioni cinesi. Senza di esse, i progressi dell’Europa, a partire dal XV secolo in poi, sarebbero stati molto più ardui, se non impossibili.
Questa storia spiega perché è necessario che la conoscenza fluisca libera in tutto il mondo. La conoscenza vuole essere libera perché, a differenza di una qualsiasi merce, un’idea non impedisce a nessuno di poterla utilizzare. In gergo, la conoscenza è “non rivale” nella sfera del consumo, il che le conferisce il carattere di “bene pubblico”.
Ma creare una nuova idea potrebbe essere molto costoso. Se qualcun altro può usufruirne senza compensarne l’ideatore, la diffusione di nuove idee potrebbe risentirne. Questo è il “problema del free-rider”. I diritti di proprietà intellettuale esistono per risolvere questo problema. Vogliono creare il “monopolio temporaneo” di un’idea.
Il problema del free riding
Eppure, come nota l’economista australiano Nicholas Gruen, nel cercare di limitare il “problema del free riding, si potrebbe smarrire l’“opportunità del free-rider”. Cioè la possibilità di costruire liberamente sulle idee degli altri. A lungo andare, quest’ultima tendenza ha teso a prevalere.
Infatti l’umanità ha beneficiato di un vasto assortimento di idee, dall’invenzione della ruota in poi. Probabilmente, la libera diffusione delle idee è una delle caratteristiche distintive dell’uomo.
Esiste un compromesso tra il parassitismo, basato sul monopolio temporaneo di un’idea, e lo sfruttamento dell’opportunità del parassitismo, cioè rendendo le idee liberamente disponibili. Infatti, i monopoli temporanei non sono l’unico modo per spingere l’innovazione.
Tra le alternative ci sono la ricerca sovvenzionata e i premi mirati. Il regime dei diritti di proprietà intellettuale di cui disponiamo ha molti meriti. Ma si tratta di un compromesso imperfetto tra interessi contrastanti, uno dei quali — quello delle imprese — è probabilmente il più potente.
I beni comuni della conoscenza
Il premio Nobel Joseph Stiglitz si spinge oltre. Afferma che la riduzione dell’insieme di idee disponibili per tutti e la recinzione dei “beni comuni della conoscenza” ha delle conseguenze negative. Regimi di proprietà intellettuale più inflessibili possono portare a ridurre l’innovazione e ad abbassare l’investimento nell’innovazione. Le opportunità del free-riding sono davvero cruciali.
I diritti di proprietà delle idee sono così strategici da diventare una fonte significativa dei conflitti internazionali. In The Hundred-Year Marathon Michael Pillsbury afferma:
“La Cina attacca regolarmente entità commerciali straniere facendo di quel paese il più grande autore mondiale di furto di proprietà intellettuale. Questo permette ai cinesi di costruire con l’imbroglio la loro scalata all’egemonia tecnologica”.
Il protezionismo nel campo delle idee
Questa preoccupazione non è nuova. Nel XVIII e all’inizio del XIX secolo, il Regno Unito era il paese leader e gli Stati Uniti si adopravano per recuperare il ritardo. Alla fine del XVIII secolo, l’Inghilterra ha volutamente iscritto come atto criminale l’esportazione di macchinari tessili e l’emigrazione di personale specializzato in campo tessile.
Ma un certo Samuel Slater emigrò segretamente in America, nel 1789, proprio con l’intento di avviare una moderna industria tessile in quel paese (l’industria “tecnologica” di allora). Altre idee nate sul suolo del Regno Unito attraversarono l’Atlantico, in particolare le ferrovie. Lo fecero proprio allo stesso modo delle idee cinesi arrivate in Europa secoli prima. Tuttavia, alla fine del XVIII e XIX secolo, il protezionismo era lo strumento principale della politica industriale americana (sotto l’influenza di Alexander Hamilton).
La Cina
Come tutto questo si rapporta oggi con la Cina? Dall’adesione all’Organizzazione mondiale del commercio nel 2001, le politiche commerciali della Cina sono meno protezionistiche di quelle degli Stati Uniti nel XIX secolo. La Cina si è inoltre impegnata a rispettare gli obblighi dell’OMC in materia di proprietà intellettuale.
Ma, agli occhi dei suoi partner, ciò è stato applicato in modo gravemente insufficiente. Questo in parte perché il sistema giuridico cinese è lacunoso e, in parte, perché la Cina è fortemente determinata a recuperare il ritardo rispetto agli attuali paesi più avanzati. Proprio come facevano questi ultimi, in passato, nel cercare di recuperare il ritardo accumulato.
La Cina non accetterà un’inferiorità permanente. Non dobbiamo nemmeno volere che resti in una condizione di eterna inferiorità. Dovremmo invece volere che le energie del popolo cinese si possano basare ed esprimere anche sulle nostre idee. È così che avviene il progresso. Dovrebbe accadere. In effetti, sta già accadendo.
Conclusioni
In primo luogo, gli attuali diritti di proprietà intellettuale non sono un imperativo morale o economico. Sono un compromesso. Il protezionismo adesso è eccessivo. Il diritto d’autore dura troppo a lungo e i brevetti sono concessi con eccessiva facilità. Questo rafforza il monopolio.
In secondo luogo, il desiderio della Cina di ottenere l’accesso alla migliore tecnologia è ineludibile e, a lungo termine, potrebbe essere un vantaggio per tutti. In ogni caso, la fuga di know-how è inevitabile. Il flusso delle idee non si fermerà.
In terzo luogo, la Cina è già la fonte di nuovo know-how. Per questo motivo, il suo interesse per la tutela della proprietà intellettuale è in crescita. Questo stato di cose dovrebbe essere il fondamento di un nuovo accordo tra la Cina e i suoi partner. Nel lungo periodo, dovremmo aspettarci che il flusso di idee diventi sempre più bidirezionale.
Meno protezionismo, più innovazione
Infine, i cittadini dei paesi avanzati dovrebbero concentrarsi meno sul protezionismo del know-how di cui dispongono e più sulle risorse e sulle istituzioni che sosterranno l’innovazione. Il valore della conoscenza esistente si erode man mano che cresce la nuova.
Ulteriori progressi sono essenziali. I diritti di proprietà intellettuale sono solo una soluzione parziale. Una limitazione alla libera ricerca scientifica arrecherà danni che nessun diritto di proprietà potrà compensare.
Come ho già scritto, i paesi ad alto reddito devono unirsi per raggiungere, nell’ambito all’OMC, un nuovo accordo con una Cina che avanza. La base di questo accordo deve essere la reciprocità. La protezione della proprietà intellettuale deve far parte di tale intesa. Ma le condizioni devono essere ragionevoli.
La Cina è giustamente determinata a diventare uno dei motori dell’innovazione. In alcuni settori lo è già. Possiamo cercare di trarne vantaggio tutti. Non dobbiamo cercare di arrestarla.