La stagflazione – la combinazione di bassa crescita economica ed elevata inflazione – è uno dei principali timori degli investitori, probabilmente secondo solo alla deflazione. Infatti, in presenza di stagflazione, l’azionario soffre per via della bassa crescita dei profitti delle società, mentre si registra una perdita di valore delle obbligazioni per via dell’elevata inflazione. Diviene, quindi, molto difficile difendere la performance dei portafogli.
Se si dovesse davvero aprire una vera guerra commerciale tra superpotenze economiche attraverso un’escalation di dazi, tra le potenziali conseguenze da prendere in considerazione vi sarebbe proprio la stagflazione. Infatti, i prezzi salirebbero (un bene prodotto negli Stati Uniti o in Europa costa più di uno prodotto in Cina), mentre i margini e le opportunità commerciali per le aziende diminuirebbero. È quindi comprensibile la reazione nervosa dei mercati alle minacce da parte di Trump di nuove imposizioni fiscali sulle importazioni.
Ad oggi si tratta però di minacce, più che di misure concrete. I dazi sono stati effettivamente imposti su pannelli solari e lavatrici, e in seguito sono stati ampliati ad alluminio e acciaio, ma restano di importo limitato. Anche se la Commissione europea ha annunciato fermezza nel rispondere a un aumento dei dazi, quelli imposti da Trump finora riguardano esportazioni che rappresentano solo lo 0,01% del PIL europeo.
Inoltre, la UE, il Messico, il Canada e altri importanti fornitori degli Stati Uniti hanno ottenuto esenzioni riguardo i dazi su acciaio e alluminio, diluendone ulteriormente l’impatto. Anzi, dopo diversi mesi di trattative, si sono registrati importanti progressi riguardo la rinegoziazione del North American Free Trade Agreement (NAFTA, che accoglie Stati Uniti, Canada e Messico).
Tuttavia, un paio di settimane fa Trump ha minacciato una serie di dazi su importazioni cinesi che valgono tra 50 e 60 miliardi di dollari. Il tutto è stato accompagnato dalle dimissioni di alti funzionari americani che avevano assunto posizioni a favore del libero scambio. Nei giorni seguenti le borse sono state deboli, l’indice azionario MSCI China ha perso oltre il 6% del proprio valore, mentre le autorità cinesi hanno reagito in modo, tutto sommato, flemmatico, annunciando a loro volta dazi su importazioni dagli Stati Uniti per un valore di solo 3 miliardi di dollari.
Occorre dire che i dazi proposti sulle esportazioni cinesi sono provvisori e soggetti a un periodo di consultazione e, quindi, gli Stati Uniti hanno lasciato spazio ai negoziati. Inoltre, se venissero confermati, l’impatto sarebbe comunque contenuto, pari allo 0,1-0,2% del PIL, e questo contribuisce a spiegare la misurata reazione cinese. In aggiunta, è possibile che i toni utilizzati da Trump siano indirizzati anche all’opinione pubblica americana in ottica delle elezioni di metà mandato di quest’anno e che, passata questa scadenza elettorale, vengano smussati.
Le preoccupazioni degli investitori sono giustificate ma, ad oggi, l’impatto dei dazi effettivamente approvati è molto contenuto rispetto al volume delle importazioni e al PIL dei Paesi interessati. L’obiettivo degli Stati Uniti è la ridefinizione dei rapporti commerciali, non l’avvio di una guerra commerciale che danneggerebbe tutti, America compresa. Monitoriamo gli sviluppi delle politiche commerciali statunitensi ma, al momento, non vediamo impatti rilevanti sull’economia mondiale. Manteniamo un sovrappeso sull’azionario globale con posizioni in sovrappeso, più contenute, anche sugli emergenti e sull’eurozona.
°°° L’autore è Chief Investment Officer di UBS Asset Management