Tutto sembra ovvio, ma nulla appare scontato. Questa è in sintesi la situazione paradossale della crisi greca. E’ ovvio che vi sia una contrapposizione tra creditori e debitori. Acuita da evidenti segnali di incapacità di restituire il debito, nonostante diversi rinvii e riduzioni. Ma non è scontato che, come avverrebbe per una qualunque impresa insolvente, si arrivi al fallimento della Grecia. Anche perché il fallimento di uno stato sovrano non porta alla liquidazione dei beni a beneficio dei creditori. I quali non hanno possibilità di rivalsa. Dovrebbero accollarsi l’intero danno, non avendo strumenti legali a loro difesa.
Gli studiosi delle crisi finanziarie ci ricordano che la storia è piena di paesi insolventi, anche di alto lignaggio: come l’Inghilterra nel XIV secolo a danno delle banche fiorentine, la Spagna nel XVI secolo a danno delle banche genovesi, la Francia che dichiarò bancarotta ben 8 volte nei due secoli precedenti la Rivoluzione. I paesi dell’America Latina hanno accumulato 126 crisi di debito pubblico dal 1800 al 2000, l’ultima la crisi argentina che ha portato gravi perdite ai risparmiatori italiani (e non solo).
Con il sostegno di questi numerosi esempi, sembrerebbe ovvio ricorrere all’arma del fallimento che consentirebbe alla Grecia di scaricare i costi sui creditori, che ormai sono le istituzioni internazionali, che hanno sostituito le banche private. Ma non è scontato. Un primo freno viene dalla perdita di reputazione, che impedirebbe di ottenere futuri prestiti internazionali. Remora in parte attenuata dalla constatazione che i mercati finanziari hanno memoria corta. Soprattutto se, come di nuovo la storia insegna, il paese riuscisse a ripartire, alleggerito dal peso del rimborso dei debiti pregressi, e recuperasse la strada della ripresa economica e sociale. Wait and see è una delle regole degli investitori finanziari. Ciò non toglie che alla richiesta di nuovi prestiti si risponderebbe con molta più prudenza rispetto al passato e con tassi più elevati che inglobano il rischio Grecia.
Il principale freno al fallimento della Grecia viene dalla sua duplice appartenenza alla UE e alla UME. In questo caso il danno sarebbe ben più grave. Al di là della perdita inflitta ai creditori, ci sarebbe una grave crisi istituzionale in prima battuta della unione monetaria e, anche se più attenuata, della unione economica.
La UME è un club interattivo, l’uscita dal quale comporterebbe danni sia per chi esce sia per chi resta. Il costo maggiore per il paese uscito sarebbe la forte svalutazione della nuova moneta, che non potrà mantenere la parità con l’euro. A questo segnale di debolezza esterna si accompagnerebbe una forte inflazione interna, che è la peggiore tassa sul potere di acquisto dei più deboli. L’eurozona si rivelerebbe attaccabile nella credibilità istituzionale. La Grecia ha un peso economico molto piccolo. Ma non si deve sottovalutare il potenziale destabilizzante degli attacchi speculativi contro gli altri paesi più indebitati, dei quali l’Italia è il maggiore.
Il nostro governo considera ovvio che l’Italia, avendo fatto (meglio sarebbe dire avviato) le riforme, sia immune dal contagio. Ma non è scontato. Ci sarà un costo da sostenere sia a livello nazionale sia a livello della UME. A parte il costo economico degli interventi tampone che dovranno essere adottati, il costo maggiore sarebbe nella battuta di arresto del processo di integrazione istituzionale. Ed è un costo che riguarderebbe in prima battuta la UME, ma che coinvolgerebbe tutta la UE. In proposito, un altro aspetto carico di ovvietà è la mancanza di un governo federale europeo, legittimato da un voto politico ad agire in un’ottica sovranazionale.
Ma ancora una volta, se è ovvio, non è scontato che si arrivi a questa soluzione. Non è nei programmi anche se tutti ne manifestano l’esigenza, in linea di principio, ma pochi la vogliono alla prova dei fatti. Tutte queste incongruenze sono entrate in gioco nel caso della Grecia. Come del resto anche nel caso delle immigrazioni. Tra rinvii, ripensamenti, ricorso strumentale alla democrazia popolare, richieste di dilazioni, conteggi, piani di aggiustamento visti, bocciati e rivisti, richiami alle radici culturali, principi etici contrapposti a esigenze di sopravvivenza, e le ripetute riunioni al vertice (i summit), tra tutto questo (e la lista potrebbe continuare) gli europei stanno mettendo in bilico due fondamentali poste.
In primo luogo, il patrimonio di idee dei grandi padri europeisti decisi a porre limiti ai nazionalismi contrapposti, dopo le tragedie delle due guerre mondiali. Patrimonio che si è concretizzato in istituzioni quali la UE e la UME, che vanno rafforzate anziché indebolite. Se non altro perché, in secondo luogo, è in gioco la possibilità dell’Europa di avere un ruolo nello scacchiere mondiale, in presenza di un proliferare di conflitti che, tra l’altro, ci riguardano da vicino.
La miopia con la quale si sta affrontando la crisi greca è un segnale molto preoccupante della mancanza di una classe dirigente che sappia valorizzare l’identità europea. Non riuscire trovare una soluzione condivisa sarebbe una grave responsabilità della quale le future generazioni subiranno le conseguenze, più dei debiti da ripagare.