Mercoledì 27 novembre scorso, Angela Merkel, Horst Seehofer, e Sigmar Gabriel, rispettivamente presidente della Cdu, della Csu e dell’Spd, hanno firmato il Koalitionvertrag, il Patto di Coalizione.
Ci sono voluti trentacinque giorni per arrivare ad un accordo. Ma per vedere nascere l’esecutivo che guiderà la Germania nei prossimi quattro anni, bisognerà aspettare ancora. Almeno altre due settimane. Il tempo richiesto dall’Spd per indire un referendum tra gli oltre 400mila iscritti al partito circa la bontà del programma. Il leader socialdemocratico Gabriel, prima di aderire ad un governo di larghe intese, vuole avere dalla sua base un mandato forte. E questo essenzialmente per due motivi. In primo luogo, nella precedente esperienza di Grosse Koalition (2005-2009), l’Spd ha pagato a caro prezzo l’alleanza con i cristiano democratici. La cancelliera Merkel, attraverso il graduale riposizionamento del suo partito verso il centro, si è appropriata di molti temi cari alla socialdemocrazia, cannibalizzando – di fatto – gli avversari. Il calo dei consensi tra le fila dell’Spd è stato drammatico: oltre dieci punti (dal 34% del 2005 al 23% del 2009) nel giro di quattro anni. I socialdemocratici paventano il ripetersi di una simile emorragia di voti.
A questo timore, si aggiunge però la consapevolezza – soprattutto tra gli esponenti più radicali dell’Spd – che la Grosse Koalition non sia l’unica alternativa di governo. Il risultato elettorale ha spostato il parlamento a sinistra: la maggioranza dei seggi (319 dei 630 complessivi) appartiene ai partiti di sinistra, ossia l’Spd, i Verdi e la Linke, i restanti 311 all’Unione della Cdu e Csu. Sulla carta esiste, quindi, la possibilità di un governo “rosso-rosso-verde”. Per ora, il vertice del partito ha escluso ogni accordo con la Linke, limitandosi ad utilizzare questa ipotesi per rafforzare la posizione negoziale dei suoi delegati al tavolo delle trattative.
E così, nonostante il trionfo elettorale della Merkel, l’Spd è riuscito a portare a casa risultati importanti, come l’introduzione del salario minimo regolato per legge (8.50 euro all’ora da introdurre in maniera graduale entro il 2017), la possibilità di andare in pensione a 63 anni con 45 anni di contributi e la parziale attenuazione della flessibilità introdotta nel mercato del lavoro dal cancelliere socialdemocratico Gerhard Schröder negli anni duemila. Tutti punti su cui la cancelliera si era fermamente opposta durante la campagna elettorale. In cambio, però, ha richiesto l’impegno a mantenere i conti in ordine e a non aumentare le tasse fino al 2017. Ma, soprattutto, ha ottenuto carta bianca sui temi europei. In pratica, i socialdemocratici hanno preferito “capitalizzare” sul piano della politica interna, delegando la politica europea alla Merkel. Del resto, questa scelta non stupisce visto che, anche quando era all’opposizione, l’Spd ha sempre appoggiato l’operato della cancelliera in sede europea, votando a favore dei pacchetti di salvataggio e dei nuovi strumenti messi in campo dalla Banca centrale europea. Pertanto, chi aveva scommesso su un cambiamento di rotta, favorito dalla presenza dei socialdemocratici al governo, si dovrà ricredere. Per ora, la linea tedesca resta la stessa: “no all’unione dei debiti, si all’unione della stabilità”, ha ammonito la Merkel in conferenza stampa. In altre parole, ogni stato deve continuare a fare le riforme e a implementare gli aggiustamenti necessari a ridurre gli squilibri che hanno portato alla crisi dell’eurozona.
Anche la Germania, dal canto suo, deve fare i conti con il perdurare di squilibri macroeconomici, benché di tipo diverso da quelli registrati nei paesi periferici. Gli squilibri tedeschi sono di natura commerciale e si traducono in un avanzo delle partite correnti che ha, da diversi anni, superato la soglia del 6 per cento del Pil fissata dai nuovi regolamenti comunitari. La Commissione europea ha recentemente chiesto di intervenire attraverso uno stimolo alla domanda interna. Anche gli Stati Uniti hanno fatto la voce grossa accusando il governo di Berlino di ostacolare la ripresa economica dell’area – e indirettamente anche quella americana – attraverso un modello di sviluppo unicamente basato sull’export.
I 25 miliardi di spesa pubblica previsti nell’accordo di governo (la Spd ne aveva chiesti 50, la Merkel 15) da destinare a ricerca, sviluppo e welfare (tra cui l’incremento delle pensioni delle donne lavoratrici con figli a carico nati prima del 1992), unitamente all’introduzione del salario minimo legale sembrano andare nella direzione richiesta dall’Europa. Tuttavia, è difficile immaginare che queste misure possano sortire effetti rilevanti sulla domanda interna in assenza di un piano complessivo di riforme volte a rendere maggiormente competitivo il mercato tedesco. Un impulso importante alla domanda interna potrebbe arrivare, ad esempio, dalla liberalizzazione del settore dei servizi, un comparto che continua ad essere molto ingessato.
A leggere le 180 pagine del Patto di Coalizione, si resta quindi un pò delusi. Del resto, da un paese come la Germania, con i conti in ordine e la disoccupazione ai minimi storici, forse non ci si poteva aspettare molto di più. L’esperienza insegna che quando l’economia va bene, non ci sono molte pressioni per fare ulteriori cambiamenti.
Veronica De Romanis (autrice di “Il Caso Germania: così la Merkel salva l’Europa” – Marsilio editori)
ha studiato economia all’Università la Sapienza di Roma e alla Columbia University di New York. Ha lavorato per dieci anni al Ministero dell’Economia e delle Finanze, nel Consiglio degli Esperti, occupandosi principalmente di macroeconomia e finanza pubblica. A Francoforte, dove ha vissuto per sette anni, ha scritto per Marsilio “Il Metodo Merkel. Il pragmatismo alla guida dell’Europa”. Nel giugno 2013, ha pubblicato, sempre per Marsilio, Il Caso Germania. Così la Merkel salva l’Europa. Attualmente, collabora con diverse testate giornalistiche e siti internet.