Da campione a problema dell’Europa il tragitto può essere breve. Ed è la strada che, scrive il Wall Street Journal, rischia di percorrere la Germania “già motore affidabile per l’intera Europa, grazie alla sua economia basata sull’export ma che oggi, in un Continente che si risveglia dalla pandemia, si scopre in ritardo sugli altri”.
I numeri giustificano almeno in parte un giudizio così severo: l’indice sulle condizioni economiche si è attestato martedì a 12,5 punti, peggio del dato precedente a 21,6 punti e contro stime a 18,30. Reuters intanto riporta che i consulenti economici del governo tedesco stanno tagliando le stime di crescita dell’anno in corso: l’aggiornamento del comitato dei saggi dice ora +2,7% nel 2021, dal +3,1% previsto dal Fondo Monetario (già rivisto in ribasso dal 3,6% di marzo). In settembre, le esportazioni della Germania sono scese dello 0,7%, peggio delle previsioni.
Certo, a fronte di questi dati ci sono segnali più positivi. L’indice Dax ha stabilito martedì il nuovo massimo assoluto, favorito anche dall’allargamento del listino principale da 30 a 40 titoli. A sorpresa l’indice ZEW dopo cinque mesi negativi, a novembre ha segnalato un miglioramento del morale dell’economia nei prossimi mesi quando, fra l’altro, il socialdemocratico Olav Scholz dovrebbe presentare il suo governo (il primo da dodici anni che non schiererà in prima fila Angela Merkel), costretto ad esordire mettendo ordine nella campagna vaccinale che vede Berlino, incredibile a dirsi, indietro rispetto all’Italia.
Ma non sta certo lì il problema principale della locomotiva tedesca che il quotidiano Usa sintetizza così: “La stagione dell’economia globale ha ormai ceduto il posto alle tensioni geopolitiche, ai colli di bottiglia che rallentano le forniture, alle pressioni per riportare in patria le produzioni. I Cinesi, fino a ieri i clienti più importanti del made in Germany, oggi rischiano di essere i primi concorrenti. Le auto di lusso tedesche soffrono la concorrenza dell’elettrico. E, a dimostrazione che il malessere viene da lontano, così la produzione industriale ad agosto risulta in discesa del 9 per cento rispetto a sei anni fa, contro il +2% dell’Eurozona. Nello stesso periodo l’industria italiana, che è fortemente legata a quella tedesca, è cresciuta del 5 per cento”.
Insomma, c’è un malessere che viene da lontano che mina la competitività del modello Germania, indiscussa leader della stagione dell’economia globale, la più esposta all’export. Basti dire che tra il 1993 ed il 2019 la quota sul Pil delle esportazioni di merci e servizi è passata dal 20 al 47%.L’abbraccio alla globalizzazione è stato il cuore della forza della Germania. Ogni anno (il 2021 non farà eccezione) Berlino si aggiudica il titolo di esportatore netto primo al mondo grazie alla sua straordinaria forza commerciale. Anche se la quota dell’export sul Pil è in calo da cinque anni, facendo suonare il campanello d’allarme: il 30 per cento dei posti di lavoro tedeschi è legato alle vendite all’estero, quattro volte tanto il dato Usa.
Per contrastare il fenomeno ci sono due possibili terapie. Di fronte alle difficoltà sui mercati il ministro dell’Economia uscente, Peter Altmeier, ha prima puntato sulla creazione dei campioni nazionali europei, scontrandosi con le divisioni della politica economica europea (vedi il no alla fusione tra Siemens ed Alstom). L’alternativa è indicata dalla Cina, l’altra grande potenza uscita vincente dalla stagione della globalizzazione: puntare di più sul mercato interno che, tradotto nella lingua di Martin Lutero, vuol dire più concorrenza nei servizi a cominciare da quelli finanziari, tasse meno alte, miglioramento della rete digitale. E, di riflesso, liquidare la politica del “debito zero”, fiore all’occhiello dell’egemonia culturale e politica esercitata da Wolfgang Schaueble che ha avuto l’effetto collaterale di frenare più del dovuto lo sviluppo delle infrastrutture. Basti, al proposito, leggere il servizio all’insegna del sarcasmo che “Le Monde” dedica alle disavventure del “Willy Brandt”, il terzo aeroporto di Berlino, decollato con un ritardo di otto anni e già in tilt ai primi cenni della ripresa del traffico aereo.
Far ripartire la congiuntura non sarà facile, nonostante le indiscutibili virtù teutoniche. Ci vorrà uno sforzo riformatore paragonabile a quello che Gerhard Schroeder riuscì a mettere in atto all’inizio del millennio, adottando una drastica riforma del lavoro messo a punto dall’ex responsabile delle relazioni sindacale di Volkswagen, un gesto che è costato la leadership ai socialdemocratici ma sui cui si è fondata la filosofia di Angela Merkel, così sensibile alle esigenze dell’industria e dell’export.
Stavolta, ammonisce Hans Eichel, il ministro dell’epoca Schroeder, sarà più difficile di allora perché “l’ambiente esterno è meno favorevole di vent’anni fa”. Per mille ragioni: la rivoluzione dell’auto elettrica che costringe il modello tedesco ad inseguire Tesla o i costruttori cinesi, cercando a fatica di adattare il sistema di produzione e le relazioni industriali alla nuova realtà (in Volkswagen crescono 30 mila posti, ammonisce il ceo Herbert Diess); i “colli di bottiglia” dalle code dei container che non risparmiano Amburgo o Rotterdam, all’assenza dei chips, materia prima indispensabile alla cui mancanza prova per ora invano di mettere una pezza Infineon.
Intanto, i non pochi scandali che hanno accompagnato in questi anni la finanza tedesca, dai periodici tonfi di Deutsche Bank alle truffe di Wirecard dimostrano che gli anticorpi del sistema Bafin, l’ente di controllo tedesco, fanno acqua. Il sistema, poi, paga la rinuncia al nucleare così come il ricorso al carbone. E così via.
Certo, il Paese leader d’Europa ha tutti i numeri per venire fuori più forte di prima, come è opportuno per l’Europa tutta, a partire dalla filiera meccanica dell’Italia del Nord Est, intimamente legata alle sorti della Baviera. Ma sarà questa una delle partite chiave su cui si gioca la ripresa italiana. Per questo, accanto alla partita del Quirinale e del futuro di Mario Draghi, merita prestare attenzione alla nomina del successore di Jens Weidmann alla Bundesbank. E, più ancora, alla scelta del nuovo ministro delle Finanze. Potrebbe essere il rigorista Christian Lindner, alfiere dei liberali che chiedono di aver voce in capitolo, sul successore di Weidmann. Oppure il Verde Robert Habeck, da sempre più ‘colomba’ in politica monetaria.
Se passerà la soluzione Lindner per l’Italia ci sarà un problema in più. Speriamo che a Berlino si segua il consiglio del Nobel Joseph Stiegliz: risparmiate a Lindner il “compito impossibile” di applicare la sua “agenda di bilancio antidiluviana” alla situazione finanziaria odierna perché l’agenda della politica finanziaria dell’Fdp e di Lindner non è solo “un accumulo di cliché conservatori”, ma soprattutto “è un cliché degli anni Novanta”.