La Germania sta rallentando, anzi peggio, è a rischio recessione. Un allarme condiviso da molti, soprattutto al di fuori dei confini tedeschi. In effetti, i dati più recenti non lasciano molto spazio all’ottimismo. Ad agosto, la produzione industriale è risultata in calo del 4% rispetto al mese precedente, la peggior flessione dal 2009. Certo, l’indice è piuttosto volatile, e quindi bisognerebbe tener conto di una serie di fattori – ad esempio che quest’anno le vacanze tedesche sono capitate ad agosto -, ma è comunque un indicatore che va ad aggiungersi ad altri tutt’altro che positivi. Come gli ordini all’industria, in flessione del 5,7% su base mensile e, soprattutto, il prodotto interno lordo che nel secondo trimestre ha registrato una contrazione – del tutto inaspettata – dello 0,2%. Neanche la dinamica del terzo trimestre lascia ben sperare ed è per questo che il Fondo Monetario Internazionale ha tagliato le stime di crescita di ben mezzo punto percentuale nel 2014 (da 1,9 a 1,4%) e dello 0,2% nel 2015 (da 1,7 a 1,5%).
E così, pur in presenza di alcuni dati incoraggianti, come quelli che arrivano dalle vendite al dettaglio (l’indice è aumentato ad agosto del 2,5%, registrando il più forte aumento dal giugno 2011) e dal mercato del lavoro (la disoccupazione giovanile è ai minimi storici), ci si affretta a concludere che la locomotiva tedesca non traina più. Ma perché tutto questo catastrofismo? Il motivo è presto detto. Tanto più forte è l’allarme, tanto maggiore è la pressione sul governo di Berlino ad attuare politiche fiscali espansive, soprattutto attraverso maggiori spese in investimenti infrastrutturali. L’obiettivo è stimolare la domanda interna, a beneficio dell’economia tedesca ma anche di quella dei paesi europei e, quindi, indirettamente dell’economia statunitense, che per inciso è il primo azionista del Fmi. In altre parole, si chiede alla Germania di consumare di più e, di conseguenza, di importare di più.
Del resto, è indubbio che l’enorme surplus commerciale tedesco (nel mese di luglio ha superato i 23 miliardi di euro) debba essere ridotto. Anche perché, attestandosi nel 2013 al 7% del Pil (nel 2014, il FMI lo stima in lieve calo, al 6,2%), ha superato da diversi anni il 6 per cento, ossia il valore che il Six Pack, indica come “valore indicativo” da non oltrepassare. Va precisato però, che, proprio perché trattasi di un valore “indicativo” (e non di un valore “soglia” come è invece il 3% nell’ambito degli accordi sulla disciplina fiscale), superarlo non significa, come spesso viene erroneamente riportato dalla stampa internazionale, aver violato le regole. Ecco perché, l’Europa ha deciso di avviare nei confronti della Germania “solamente” una indagine e non una procedura di infrazione. Dall’indagine, conclusasi nell’aprile scorso, non sono emersi squilibri macroeconomici eccessivi, ma nonostante ciò, anche Bruxelles ha fatto presente al governo di Berlino che sarebbe auspicabile un ridimensionamento del surplus delle partite correnti, attraverso aumenti della spesa pubblica.
La Germania, però, continua a far orecchie da mercante e si ostina ad attuare politiche fiscali di segno opposto, a cominciare dall’anticipo del pareggio di bilancio al 2015 e dal raggiungimento del rapporto fra debito e Pil al 60 per cento nel 2019, il che comporta una riduzione di ben 15 punti percentuali in poco meno di quinquennio. Ma perché tanto rigore fiscale? I motivi sono principalmente quattro.
In primo luogo, l’opinione che prevale tra le fila del governo (ma non solo) è che il rallentamento in corso sia di natura temporanea, legato a fattori esterni, come la crisi geopolitica in corso. Pertanto, non c’è motivo di preoccuparsi né, tanto meno, di agire. E poi, anche nel caso di un peggioramento delle prospettive di crescita, la Germania è sempre stata riluttante ad implementare politiche macroeconomiche, in particolare quelle fiscali, in senso anti-ciclico.
In secondo luogo, considerato il tasso di invecchiamento della popolazione (il più elevato dell’Unione), tenere i conti in ordine significa garantire la sostenibilità del sistema del welfare tedesco. Un punto su cui convergono tutte le forze politiche.
In terzo luogo, e questo è certamente l’aspetto più politico, con l’affermarsi del nuovo partito euroscettico Alternative f?r Deutschland alle recenti elezioni regionali, il governo Merkel si vedrà costretto a collocarsi su posizioni più rigoriste per quanto attiene all’utilizzo dei soldi dei contribuenti. Con il 10 per cento dei voti raggiunto in Turingia, Sassonia e Brandeburgo, sarà infatti più facile per questa nuova forza politica far sentire la propria voce su temi legati agli aiuti ai paesi in difficoltà.
L’ultimo motivo, ma non certo il meno importante anche se il meno evidenziato nel dibattito pubblico italiano, è quello legato alla perdita di fiducia in Europa. Dal punto di vista tedesco, la crisi ha avuto origine in Europa con la rottura del patto fiduciario tra i paesi dell’unione monetaria, al momento in cui si è scoperto che la Grecia aveva truccato i conti. L’aggravarsi della situazione economica, non ha di certo facilitato il ripristino della fiducia tra gli stati membri, anche perché alcuni di loro non hanno mantenuto gli accordi presi. Basti pensare a quando la Bce, nell’estate del 2011, decise di venire in “soccorso” a paesi in difficoltà, come l’Italia, acquistando titoli di debito pubblico in cambio di promesse di riforme mai mantenute. Il risultato dell’intervento dell’istituto di Francoforte fu quello di un temporaneo miglioramento per poi tornare, se possibile, peggio di prima. Ecco perché, questo tipo di “soccorso” è considerato sbagliato dai tedeschi: il presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, lo ha definito una “droga” che attenua la pressione sui governi nazionali. Seguendo la stessa logica, anche una maggiore domanda interna tedesca rischierebbe di diventare una “droga”, efficace a dare ossigeno nel breve periodo alle economie del Sud d’Europa, ma che verrebbe facilmente utilizzata come scusa per rimandare le riforme, soprattutto quelle che presentano un costo politico elevato. In sostanza, quello che i tedeschi vogliono evitare è di mettere in campo aiuti che incentivino l’azzardo morale.
Ecco perché, alla cancelliera Merkel piace l’idea dei “contractual arrangments”, quei contratti in cui il paese che li sottoscrive riceve aiuti, sotto forma di maggiore tempo o maggiori finanziamenti, ma solo in cambio di impegni a implementare una serie di riforme concordate ex ante con Bruxelles. Se nel futuro questi contratti venissero formalizzati, probabilmente anche la Germania sarebbe disposta a sottoscriverne uno.