Quando a metà febbraio la SEB francese compra l’italiana San Marco, storica leader della macchine di caffè, qualcuno avrà pensato si trattasse di una ennesima news aneddotica. Però, appena comparve sul web delle agenzie, si capì al volo che di una banale storia di shopping internazionale non si trattava.
Ma cominciamo dall’inizio: la San Marco, impresa familiare controllata all’85% da Massimo Zanetti, un milione di fatturato e 94 dipendenti, situata vicino a Gorizia nel Nord Est, marca prestigiosa di macchine a caffè professionali, finisce brutalmente nella borsa della SEB, 8 miliardi di fatturato e 3.000 dipendenti. Il rinnovato ingresso francese nel mondo del Made in Italy era cominciato qualche mese prima non tanto perchè la società di riassicurazione Partnerke del gruppo Exor era stata comprata dalla francese Covea, ma perchè la LifebrainAG (settore farmaceutico) era stata inghiottita dalla Cerba, mentre la cantina del Chianti “Le isole Olena“, un 56 ettari toscano vivace e innovativo, veniva catturata dalla ÉPI dell’investitore Christofer Descours.
Le domande sul senso di queste operazioni verranno alimentate dalle statistiche. Le quali certificano che oggi la Francia è il secondo investitore straniero in Italia dopo gli Stati Uniti mentre l’Italia rimane al quinto posto in Francia. Fra il 2007 e il 2020, i francesi hanno sborsato quasi 38 miliardi di euro per far nascere e prosperare 2074 filiali che danno lavoro a 290.269 persone in Italia, soprattutto nel Nord e nell’Est e poi nel Lazio. È stato il ministro francese dell’Economia a certificarlo. La sproporzione fra i due Paesi si accentua se si ragiona soltanto sugli ultimi 5 anni: 518 investimenti francesi in Italia contro 318 italiani in Francia.
Queste cifre sono accompagnate da una scoperta: i francesi si interessano quasi esclusivamente di PMI , di piccole e medie aziende italiane dell’abbigliamento e dell’alimentare, questi pianeti creativi spesso a conduzione familiare, decimati e indeboliti dalla pandemia, e dal costo crescente dell’energia e delle materie prime È così che la pandemia ha spinto molti produttori a uscire dal mercato, o a prendere contatto con nuovi partners, o a cedere il controllo della loro impresa o infine a venderla a uno straniero.
Aiutati da advisor e operatori specializzati che avevano setacciato da parecchio il tessuto produttivo italiano gli investitori di Oltralpe lo sapevano e avevano da parecchio capito che poco era rimasto di comprabile dei grandi conglomerati del lusso, dei gioielli della moda universalmente celebrati, tipo Gucci, Loro Piana, Bulgari. E che quanti erano rimasti stavano sul chi vive onde evitare di essere colpiti dal diritto di veto (Golden power) che il governo sovranista e protezionista di Giorgia Meloni poteva usare dopo averli qualificati di “strategici”.
Rimanevano dunque “soltanto” le piccole e medie imprese. Ed è così che gli autentici pionieri dell’innovazione che popolano la Penisola, eterni artigiani di una successione di “miracoli italiani” , hanno spesso assunto il ruolo di “prede”. Suscitando l’inevitabile reattività degli ambienti del potere, che si sono chiesti sotto sotto se questa ondata di investimenti stranieri non nascondeva un desiderio di dolce vita “predatoria”.
Ma un’osservatrice molto attenta ed esperta della realtà italiana che fu ministra nel governo Prodi e che attualmente è vice presidente dell’IREFI (Istituto per le relazioni economiche Francia-Italia), Linda Lanzillotta risponde a questi sospetti con molta tranquillità e saggezza. Per lei, gli investimenti francesi “non sono una semplice operazione di acquisto “. Non è il caso, dice, di evocare una qualsiasi logica predatoria. Perché gli investimenti francesi in Italia hanno una “funzione di integrazione delle due economie”. Che si tratti di “capitali umani, di management, di ricerca, di nuove tecnologie o di digitalizzazione“, essi servono a “valorizzare i know how dei due paesi, creando una maggiore competitività sullo scacchiere europeo“. E “assistono la piccola e media industria dai due lati delle Alpi“. Per concludere, Linda Lanzillotta tiene a sottolinearlo: si “rassomigliano“ la Francia e l’Italia, “con le loro analoghe prospettive di crescita e il loro sistema industriale competitivo“ e questo conta. Una chiave di lettura che aiuta a capire e a inquadrare correttamente cosa c’è dietro lo shopping francese di aziende in Italia.