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La Fiat, la crisi del 2002, l’accordo di programma con Berlusconi e l’arrivo di Marchionne, l’uomo del grande rilancio

La storia della Fiat, l’azienda simbolo dell’auto italiana oggi confluita in Stellantis, è piena di crisi e resurrezioni. L’autore, che fu manager della Fiat fino ai primi anni Duemila, ricorda la crisi del 2002, gli incontri di Palazzo Chigi e il salvifico arrivo di Sergio Marchionne che ridiede slancio a un’azienda tecnicamente fallita

La Fiat, la crisi del 2002, l’accordo di programma con Berlusconi e l’arrivo di Marchionne, l’uomo del grande rilancio

Il 2002 segnò per la Fiat il culmine di una crisi che si prolungava da più di un decennio. L’azienda perdeva 5 milioni di euro al giorno e negli ambienti della city milanese quando si parlava di “quei falliti di Torino” ci si riferiva alla Fiat.

A differenza della crisi del 1980 dovuta al protrarsi nel decennio precedente di una conflittualità permanente nei luoghi di lavoro che aveva portato all’ ingovernabilità delle fabbriche, la crisi sfociata definitivamente nel 2002 era dovuta alla perdita di competitività ed attrattività del suo prodotto.

Dopo la estromissione dell’ ingegner Ghidella dal settore auto alla fine degli anni Ottanta, la Fiat aveva perso quote di mercato in Italia ed Europa, passando dalla posizione di leader del mercato europeo con il 18% ad una progressiva retrocessione arrivando a circa il 7% agli inizi del nuovo secolo, non solo dietro le tedesche e le francesi, ma anche dietro le filiali europee delle case americane e giapponesi.

L’alleanza con GM

Già due anni prima, nel marzo 2000, nell’intento di salvaguardare gli interessi degli azionisti, l’Azienda si era rivolta oltre oceano siglando una alleanza con la General Motors, che prevedeva da parte americana la sottoscrizione di una partecipazione del 20% in Fiat Auto in cambio dell’entrata di Fiat nel capitale GM con una quota pari a circa il 5,1% per un valore di 2,4 miliardi di dollari, e tale da farla diventare il suo prima azionista privato.

Per la Fiat l’alleanza avrebbe dovuto rappresentare l’integrazione delle proprie forze con un leader mondiale dell’industria automobilistica, accelerando con interventi strutturali e di riduzione dei costi un ritorno alla redditività, da troppo assente nei conti del settore auto.

Il punto nodale dell’accordo era però il riconoscimento a favore di Fiat del diritto di opzione “put” per cedere il restante 80% di Fiat Auto a GM a partire dal quarto anno ed entro i successivi cinque dell’ alleanza.

Come disse l’allora amministratore delegato di Fiat al management riunito: “Abbiamo bruciato le navi senza possibilità di tornare indietro”. Scelta dichiarata irrevocabile!

Le cose andarono poi diversamente. Nel febbraio 2005, la GM, pur di evitare l’esercizio della opzione “put”, fornì essa stessa alla Fiat le “navi del ritorno” con il versamento cash di 1,5 miliardi di euro e la restituzione della quota di partecipazione che aveva in Fiat Auto. 

Fiat: la crisi e la chiusura degli stabilimenti e l’avvio di Melfi

Gli anni Novanta del secolo scorso sono anni di profonda crisi per la Fiat.

Per ridurre i costi di struttura, vengono chiusi gli stabilimenti dell’Autobianchi di Desio, della Lancia Chivasso, della Fiat Rivalta, dell’Alfa Romeo di Arese. Non si farà ricorso ai licenziamenti collettivi per riduzione di personale, ma saranno collocati in pensione o prepensionamento migliaia di lavoratori e per altri si farà ricorso alle incentivazioni economiche all’ uscita.

La situazione occupazionale in Italia fu temperata a metà degli anni 90 quando venne avviato al Sud lo stabilimento di Melfi, che avrebbe dato lavoro ad oltre 7000 persone.

All’inizio l’azienda si era orientata, in ottica riduzione costi, ad insediarsi in un nuovo stabilimento in Portogallo per la produzione del modello da lanciare, la Fiat Punto, attese le condizioni competitive che quel paese offriva in termini di incentivazioni economiche e finanziarie e di un costo del lavoro inferiore di oltre la metà.

Dopo un serrato dibattito a livello sindacale a compensazione delle chiusure degli stabilimenti al Nord, la Fiat ritenne comunque alla fine di poter privilegiare una scelta nazionale, nel presupposto che essa dovesse risultare coerente con gli imprescindibili obbiettivi di contenimento dei costi con specifico riferimento alla flessibilità della prestazione lavorativa ed ad un utilizzo intensivo degli impianti.

In tal senso fu stipulato con tutti i sindacati metalmeccanici un contratto collettivo di lavoro specifico per Melfi che prevedeva un costo del lavoro inferiore del 20% rispetto a quello degli altri stabilimenti Fiat. 

Sono anni critici anche per i vertici apicali dell’ azienda: nello spazio di pochi anni nella Capogruppo si avvicenderanno cinque amministratori delegati e quattro in Fiat Auto.

Nonostante i processi di ristrutturazione attuati, la diminuzione della forza lavoro, la riduzione del costo del lavoro e la joint-venture con la General Motors, la situazione produttiva e finanziaria continua a peggiorare.

Il prestito da 3 miliardi e l’aumento di capitale

Nella primavera del 2002 la Fiat si trova costretta a stipulare con un pool di quattro banche un prestito di 3 miliardi di euro (il cosiddetto “convertendo”) ed addirittura cedere la propria partecipazione in GM a Merryll Lynch per 1,16 miliardi di dollari. Quel che è peggio, crolla la produzione annua di vetture in Italia passando da 1,7 ad 1,1 milione di vetture, un livello da anni 60.

Mirafiori, lo stabilimento iconico dell’ auto, non arriva più a produrre neanche 1000 vetture al giorno contro le oltre 3000 degli anni ottanta. Nei primi nove mesi del 2002 il risultato netto del Gruppo è negativo per quasi un miliardo di euro.

L’azienda per questo motivo decide di varare un aumento di capitale pari a 2,5 miliardi di euro ed avviare, a fine ottobre, dopo alcuni incontri inconcludenti con i sindacati, le procedure per la dichiarazione di crisi aziendale con la sospensione dal lavoro a zero ore di circa 7500 lavoratori, dichiarati esuberi strutturali.

Gli incontri a Palazzo Chigi

Il Presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, convoca immediatamente per il 5 novembre a Palazzo Chigi l’ azienda e i sindacati confederali e metalmeccanici per esaminare la situazione di crisi del settore auto.

Nel mese di novembre e dicembre si tennero quindi diversi incontri a Palazzo Chigi, nella sala riunioni istituzionale, la cosiddetta Sala Verde, così chiamata per il colore della tappezzeria, tra il Governo, l’ Azienda e i sindacati. Il Governo era rappresentato dal vicepremier Gianfranco Fini ed i ministri dell’ economia Giulio Tremonti, delle attività produttive Antonio Marzano, del welfare Roberto Maroni con il sottosegretario Maurizio Sacconi, delle politiche comunitarie Rocco Buttiglione, dell’ ambiente Altero Matteoli e delle pari opportunità Stefania Prestigiacomo (in pratica quasi tutto il governo). La delegazione Fiat era composta dal direttore generale ingegner Alessandro Barberis e dai responsabili delle relazioni industriali del Gruppo e di Fiat Auto, Paolo Rebaudengo e chi scrive. Per i sindacati erano presenti i segretari generali della Cgil, Cisl e Uil, Epifani, Pezzotta e Angeletti e Renata Polverini per la Ugl, affiancati dai segretari metalmeccanici di Fim, Fiom e Uilm, Caprioli, Rinaldini e Regazzi, oltre che dalle strutture sindacali territoriali dei principali stabilimenti Fiat.

Nel corso degli incontri l’azienda, chiarendo ampiamente le motivazioni che l’avevano indotta ad attivare la procedura di richiesta dello stato di crisi, illustrò il piano industriale e le azioni che erano alla base dei progetti tesi a superare la contingente fase negativa ed a rilanciare il settore auto, definendo per ogni stabilimento la propria missione.

Mentre il sindacato chiedeva l’entrata dello Stato nel capitale azionario e ci fu addirittura un segretario confederale che propose di attivare per la Fiat la procedura dell’ amministrazione controllata. Il ministro Marzano incaricava la società di consulenza strategica Roland Berger di verificare approfonditamente il piano di interventi per Fiat Auto sul processo (capacità produttiva), sul prodotto (nuovi modelli), sugli investimenti, sulla rete commerciale, tutti interventi che la stessa giudicò idonei a superare la situazione di crisi dell’ azienda.

In particolare, la società di consulenza riteneva che il piano, oltre allo sviluppo di nuovi prodotti attraverso un impegno significativo di investimenti, fosse orientato a ridurre la strutturalità dei costi ed abbassare il punto di pareggio e, pertanto, potesse essere condiviso, a condizione che venisse assicurata la potenzialità dello sviluppo dei programmi produttivi a fronte del successo dei nuovi modelli e delle richieste di mercato.  

Peraltro si arrivò alla fine di novembre con i termini legali della procedura di sospensione a zero ore scaduti e con la possibilità per l’azienda di agire unilateralmente a partire dal 9 dicembre successivo.

“L’accordo di Programma”

La sera del 4 dicembre Silvio Berlusconi riuniva a cena i ministri impegnati nella trattativa per definire, onde evitare l’invio da parte della Fiat delle lettere di sospensione dei 7500 lavoratori, una proposta di chiusura della vertenza da sottoporre all’ azienda e ai sindacati. Nel pomeriggio del 5 dicembre riprendeva l’incontro in Sala Verde con il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Gianni Letta che dava lettura della proposta del Governo di sottoscrivere un “Accordo di Programma” tra tutti i soggetti interessati, Governo, Fiat e sindacati.

Con tale proposta il Governo rendeva disponibili una politica attiva del lavoro, gli ammortizzatori sociali come la mobilità lunga ed il prepensionamento, gli strumenti di sostegno alla innovazione, ricerca e sviluppo di nuove tecnologie di prodotto e di processo, e favoriva una politica di mercato atta a stimolare il rinnovamento del parco circolante con gli ecoincentivi.

Il documento governativo riconosceva inoltre che sussistevano le condizioni per lo stato di crisi aziendale e, quindi, per il ricorso alla cassa integrazione guadagni straordinaria, individuando anche interventi per la riduzione del numero delle eccedenze ed il rafforzamento delle prospettive di rientro dei lavoratori.

L’Azienda dava la sua adesione alla proposta governativa mentre i sindacati metalmeccanici la bocciavano, giudicandola una soluzione non accettabile in quanto non prevedeva un vero e proprio intervento dello stato nel settore auto.

Dopo questo strappo sindacale negli anni successivi i rapporti in azienda si normalizzeranno progressivamente con i sindacati riformisti e partecipativi Fim-Cisl e Uilm-Uil, ma resteranno conflittuali con il sindacato antagonista Fiom-Cgil sino ad arrivare, nel 2011, alla firma solo con i primi due sindacati del Contratto Nazionale di Lavoro Fiat.

L’arrivo di Marchionne

Nel gennaio 2003 veniva a mancare l’Avvocato, e dopo qualche tempo, nel maggio 2004, anche suo fratello Umberto. Fu Susanna Agnelli, ormai la “patriarca” della Famiglia, ad imporre, il 1° giugno 2004, al consiglio di amministrazione Fiat la nomina ad amministratore delegato di Sergio Marchionne, che, fugato il periodo del dissesto, promosse la ristrutturazione ed il grande rilancio della Fiat.

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