Nell’ultimo intervento su FIRSTonline il glottologo Daniele Vitali, che sta preparando un libro per goWare, ha ripercorso la “questione della lingua” descrivendo come dalla Divina Commedia si sia arrivati all’italiano di oggi. Per capire meglio il periodo e il luogo di nascita della lingua nazionale occorre però volgere lo sguardo verso il De vulgari eloquentia e ancora a prima, alla situazione di fatto da cui Dante partì. È qui che Vitali ci porta al rapporto tra l’italiano e il toscano che è all’origine della nostra lingua e di cui discute la dinamica tra lingua scritta e parlata.
Il volgare siciliano
La stessa argomentazione che riguarda il toscano, cioè la sua inadeguatezza a fare da lingua illustre (vedi prima parte) è proposta da Dante per “il volgare siciliano” che “non merita assolutamente l’onore di essere preferito agli altri, perché non si può pronunciarlo senza una certa lentezza” come in “Tragemi d’este focora se t’este a bolontate”. Se invece lo prendiamo “nella forma in cui sgorga dalle labbra dei siciliani più insigni […] non differisce in nulla dal volgare più degno di lode”.
Risulta evidente da questo presunto esempio di siciliano popolare (e ancor più quando mostra quello che “sgorga dalle labbra dei siciliani più insigni”) che Dante non cita affatto campioni di lingua parlata, ma attinge alle fonti scritte cui aveva avuto accesso, nonostante i suoi viaggi per l’Italia gli avessero anche consentito quelle che oggi chiameremmo “rilevazioni sul campo”, come appunto che c’erano piccole differenze tra borghi bolognesi.
A Bologna
E proprio su Bologna viene un giudizio sorprendente: “i Bolognesi parlano la lingua più bella di tutte, dato che essi assumono nel proprio volgare qualche elemento da quanti li circondano”, poiché “prendono dagli Imolesi il morbido e il molle, e invece dai Ferraresi e dai Modenesi una certa chioccia asprezza che è propria dei Lombardi”.
In pratica, secondo il Divino Poeta il bolognese aveva il vantaggio di non risultare né troppo femmineo né troppo rozzo; se questo giudizio fa pensare a una conquista della moderna dialettologia, ossia la posizione intermedia del bolognese fra i dialetti “emiliani” e quelli “romagnoli”, la caratterizzazione dei primi e dei secondi è però del tutto antiscientifica, come i giudizi dati in precedenza sul volgare dei Romani o quello dei Sardi.
Nonostante il bolognese sia l’unico risparmiato dalle aspre critiche dantesche, è però dichiarato anch’esso non adatto a fungere da “volgare regale ed illustre” perché, se lo fosse stato, Guido Guinizelli non avrebbe poetato “Madonna, ‘l fino amore ch’io vi porto”: in effetti il bolognese dell’epoca, che Dante udì nei suoi viaggi, doveva aver già perso le vocali finali e presentare invece opposizioni tra vocali accentate lunghe e brevi, nette e intermedie, orali e nasali certo assenti nei componimenti poetici di un autore come Guinizelli, bolognese sì, ma che s’ispirava a modelli letterari siculo-toscani.
La “pantera” del volgare illustre
C’è insomma una certa confusione tra lingua scritta e parlata nel ragionamento di Dante sui dialetti (come li chiameremmo oggi), il che però non gli impedisce di scrivere cose particolarmente interessanti quando, cassati tutti i volgari municipali, non gli rimane che individuare quello “illustre, cardinale, regale e curiale” in una “pantera che bracchiamo” e “che fa sentire il suo profumo in ogni città, ma non ha la sua dimora in alcuna”.
E questo volgare è per lui “quello che è di ogni città italiana e non sembra appartenere a nessuna, e in base al quale tutti i volgari municipali degli Italiani vengono misurati e soppesati e comparati”.
Secondo Carlo Tagliavini (“Le Origini delle Lingue Neolatine” 1982, p. 412), Dante “mirava alla formazione di una koinè italiana che prendesse il meglio di quanto era comune fra tutti i volgari; egli sognava una lingua aulica italiana sul tipo di quella dei Provenzali, un idioma che non fosse nessuno dei ‘volgari’ d’Italia” solo che, nota l’autore, “dalla teoria alla pratica la differenza è sovente assai grande e Dante, contrario in teoria all’uso del Toscano, scrisse in un Fiorentino temperato e contribuì in tal modo più di ogni altro Italiano a fare assurgere questo dialetto a lingua letteraria di tutta l’Italia”.
Una lingua letteraria in potenza
A me però sembra che il De vulgari descriva soprattutto una situazione in divenire in cui, sul filo delle esperienze siciliana e toscana, si stava delineando una lingua letteraria in potenza, ossia una lingua scritta basata su una versione sprovincializzata del dialetto degli autori che, rispondendo a un ideale medievale di eclettismo linguistico(Gerhard Rohlfs, “Studi e ricerche su lingua e dialetti d’Italia”, 1972, p. 135), veniva resa illustre attraverso apporti esterni, latini, provenzali, francesi e, specie nel caso toscano, anche dell’Italia Settentrionale, con cui la Toscana confinava e che aveva avuto esperienze letterarie proprie influenzate dai modelli d’Oltralpe (la letteratura “franco-italiana” o “franco-veneta” iniziata nella prima metà del XIII sec.).
Scrivendo la Divina Commedia in fiorentino, insomma, Dante non usò semplicemente la propria lingua materna, ma si raccordò a una tradizione a lui preesistente, cui per quanto riguarda la sua fase toscana aveva contribuito in prima persona partecipando al Dolce stil novo.
Questa tradizione venne poi consolidata dal linguaggio della Commedia, che non è in fiorentino puro come vedremo sotto, anche se il carattere principalmente fiorentino del suo volgare, e il fatto che poetarono in tale volgare pure Petrarca e Boccaccio, avrebbe fatto proprio del fiorentino del Trecento la lingua scritta di tutta l’Italia (come ho raccontato il mese scorso).
Senza dimenticare il summenzionato ruolo economico e politico di Firenze nell’Italia di allora, o la posizione geografica intermedia della Toscana fra Nord e Sud.
La Divina Commedia e le sue conseguenze
L’opera principale di Dante è certa di tipo letterario, filosofico-religioso e politico, ma penso si possa dire che rispecchi anche la concezione linguistica dell’autore.
Dante come sappiamo usi registri diversi nelle tre cantiche: alle immagini crude e variopinte dell’Inferno che così poco piacevano a Pietro Bembo (cfr. articolo del mese scorso) si contrappone il linguaggio elevato ed ermetico del Paradiso. Inoltre, anche se la sua opera è in fiorentino, vi troviamo una serie di elementi letterari non toscani, quali latinismi, provenzalismi, settentrionalismi (cfr. Rohlfs 1972 cit.), e pure neologismi come “indiarsi”, che significa “avvicinarsi a Dio”.
Abbiamo visto il mese passato che, proprio per queste caratteristiche a loro sgradite dell’opera dantesca, Bembo e i suoi seguaci indicarono piuttosto, come modello per la lingua scritta, le opere di Francesco Petrarca e Giovanni Boccaccio, ma il contributo di Dante non può essere ignorato, tanto che si parla di lui come del “padre della lingua italiana”.
Fu infatti grazie all’esperienza delle “tre corone fiorentine” da lui iniziata che “il toscano” divenne la lingua scritta di riferimento per gli autori di tutta Italia, a partire dall’emiliano Ludovico Ariosto che, dopo aver scritto le prime versioni dell’Orlando Furioso in una lingua letteraria settentrionaleggiante, pubblicò poi l’edizione definitiva del 1532 in toscano.
Chiudiamo con due osservazioni, che scaturiscono da quanto detto finora.
Il “padano illustre”
Ho detto un mese fa che trovo un po’ fuorviante la definizione di “padano illustre” con cui è stato designato il linguaggio settentrionaleggiante del primo Ariosto, nonché quello dell’opera cui questi si rifaceva, ossia L’Inamoramento de Orlando del suo predecessore e conterraneo, lo scandianese Matteo Maria Boiardo (1441-1494).
Tale espressione, verosimilmente coniata sull’esempio di “siciliano illustre” che a sua volta si rifà al dantesco “volgare illustre”, designa infatti una realtà piuttosto differente.
Il “siciliano illustre”, come abbiamo visto, è una lingua ottenuta prendendo un dialetto di tipo siciliano e utilizzandolo a fini letterari, con l’aiuto di parole mutuate da altre lingue che avevano già una propria letteratura oppure inventando, in base a quegli stessi modelli, delle parole nuove.
Si badi che la base di partenza era un dialetto vero e proprio, come mostra il fatto che avesse un vocalismo accentato a soli 5 elementi contro i 7 da cui ha preso le mosse l’evoluzione della maggior parte delle lingue e dei dialetti romanzi, compresi italiano, francese, spagnolo e portoghese.
Il “padano illustre” di Boiardo e di Ariosto invece non era a base reggiana, o ferrarese, né tantomeno guardava a un dialetto intermedio fra tutti quelli della Pianura Padana: si trattava semplicemente di un tentativo di scrivere in un volgare elevato che però, naturalmente, risentiva delle esperienze letterarie che erano già state fatte nel Nord Italia.
La cosa è esemplificata dallo stesso titolo L’Inamoramento de Orlando, in cui certo manca la doppia nn preaccentuale, ma ci sono comunque le vocali finali che, come abbiamo visto, in Emilia dovevano già mancare ai tempi di Dante (quando a de, è la base di partenza latina sia del fiorentino “di” che dell’emiliano di allora (a) d, per cui possiamo considerarlo o un latinismo o un influsso franco-veneto o ancora un elemento diffuso dovunque in Italia Centrale non ci sia stato l’innalzamento e > i preaccentuale del fiorentino).
Il fiorentino è un dialetto?
Abbiamo visto sopra che, riferendosi al fiorentino, C. Tagliavini parlava di “dialetto”. La cosa non piace ad alcuni toscani che, in ragione dell’originaria filiazione fiorentina dell’italiano, parlano tutt’al più di vernacoli toscani, reinterpretando la parola vernacolo nel senso di “variante bassa dell’italiano”.
La cosa è discutibile perché, come osservato un mese addietro, l’italiano si è diffuso lungo la filiera scritta, e non attraverso una propagazione a macchia d’olio del fiorentino sul resto del territorio (soprattutto non di quello extratoscano). Così, l’italiano è diventato in un certo senso la “lingua tetto” dei toscani stessi, i cui “vernacoli” continuavano nel frattempo ad evolversi in un modo che, a livello fonetico, non fu influenzato oltre misura dalla lingua scritta.
Tanto per fare un esempio, il fiorentino dantesco non doveva avere la gorgia, come ho argomentato al vol. IV di Dialetti emiliani e dialetti toscani. Si chiama “gorgia” il fenomeno per cui /k/ intervocalica viene pronunciata come se fosse una h, sia all’interno della stessa parola che tra parole diverse: in fiorentino, e di conseguenza nell’italiano di Firenze, si dice dunque in casa, il cane ma la hasa, i hani, e poi ancora amiho, formiha, uniho e così via. Un analogo fenomeno di riduzione fonetica riguarda /p, t/, per cui rapha, capho, ditho, ròtha “rapa, capo, dito, ruota”.
La separazione del fiorentino dall’italiano
Ebbene, lo sviluppo della gorgia e altre caratteristiche locali a Firenze quando l’italiano era già lingua letteraria affermata mostra proprio che i due idiomi, dopo l’atto della filiazione, hanno cominciato ad evolversi tutto sommato separatamente malgrado, per le condizioni sociolinguistiche e la particolare storia della Toscana, il fiorentino anche più marcato resti piuttosto simile all’italiano neutro.
Per questi motivi, pure il fiorentino è un oggetto legittimo di studio per la dialettologia, e bene si fa, in epoca moderna e al contrario dell’uso dei secoli scorsi, a chiamare la nostra lingua comune “italiano” anziché “toscano”. Perché il toscano inteso come sistema dialettale, e anche inteso come pronuncia regionale dell’italiano, è in fondo il più riconoscibile di tutti.