Per dare centralità e aggredire la crisi dell’industria italiana, troppo spesso dimenticata, ci vuole il concorso di tanti protagonisti della vita nazionale, dal Governo, alle parti sociali e alle Università, ma ci vorrebbe soprattutto un movimento d’opinione che ricordi a tutti che “la manifattura conta, eccome se conta”. E’ l’opinione intrigante del professor Franco Mosconi, ordinario di Economia e politica industriale all’Università di Parma, autore di una monumentale monografia sulla politica industriale europea, pubblicata da Routledge, e di molti lavori sul “modello emiliano” tra cui quello più recente che non per caso si intitola proprio “Modello Emilia. Imprese innovative e spirito di comunità”. Mosconi guarda in faccia con realismo a una crisi industriale che si fa sentire anche in Emilia e su cui pesa come una zavorra il costo dell’energia, ma resta convinto che, anche di fronte alle insidiose sfide lanciate alle aziende europee dal Presidente americano Trump, una via d’uscita ci sia ed è quella indicata nei Rapporti di Mario Draghi sulla competitività e di Enrico Letta sul mercato unico che raccomandano più investimenti, più innovazione e più riforme, a condizione che l’Europa sappia rispondere all’America parlando con una voce sola. Ma ecco, in questa intervista rilasciata a FIRSTonline, le riflessioni dell’economista industriale emiliano.
Professor Mosconi, la produzione industriale italiana è in calo da 22 mesi e qualcuno un po’ provocatoriamente si chiede se, continuando così, la nostra resterà la seconda manifattura d’Europa: quali sono i veri mali della nostra industria? Il crollo dell’automotive, la crisi di mercati di sbocco essenziali come la Germania e la Cina, l’alto costo dell’energia o che altro?
“Tutto quello che lei ha elencato e che viene ulteriormente amplificato nei suoi effetti dalle turbolenze a livello geopolitico (non dimentichiamo mai il dramma di due guerre) e dalla frammentazione geoeconomica (la costituzione in giro per il mondo di blocchi di Paesi, alcuni assai granitici). Prendiamo il caso del costo dell’energia: come ha ricordato nei giorni scorsi il presidente di Confindustria, Emanuele Orsini, ‘non è possibile pagare il +43% di energia in un anno’ perché ‘vuol dire perdere competitività’”.
Malgrado la caduta della produzione industriale italiana parli da sola, il chief economist di Intesa Sanpaolo (ISP), Gregorio De Felice, sostiene che l’industria italiana resta competitiva e ha una capacità di reazione maggiore di quella tedesca e che il modello industriale italiano sia tutt’altro che in crisi: Lei che cosa ne pensa?
“Sì, l’intervista di Gregorio De Felice a Dario Di Vico per L’Economia è una informata e aggiornata riflessione su tutti i principali settori dell’industria italiana: in un’ottica di medio periodo (dal 2008 a oggi), molte cose sono cambiate in meglio a livello strutturale. Pensiamo alla specializzazione manifatturiera italiana col rafforzamento di produzioni come la farmaceutica e la meccatronica, e alla resilienza dei distretti industriali (sono oltre 150 quelli monitorati proprio da ISP, più una ventina di poli tecnologici). Viene sottolineata con forza dal Chief economist di ISP la capacità di reazione della nostra industria – cito – ‘superiore a quella dei tedeschi, perché è più piccola e flessibile, ha un’ampia diversificazione dei prodotti e dei mercati di sbocco’. Al tempo stesso va detto che, sia guardando ai migliori nella Ue che nel resto del mondo (l’Economist nel suo numero di fine anno ha raccontato la storia di successo delle imprese dei Paesi Nordici), l’asticella va collocata sempre più in alto”.
In che senso?
“Nel senso che le nostre imprese – moltissime delle quali con solide proprietà familiari alle spalle – devono continuare a crescere nelle dimensioni e nel loro livello tecnologico. Alcune importanti indagini empiriche negli ultimissimi anni confermano che c’è – come chiamarla? – una élite di imprese che dalla piccola dimensione è passata (e sta passando) alla media, e dalla media alla grande: un sistema che consente ai migliori questi passaggi di scala è, in generale, un sistema sano. L’indagine sulle 1.000 imprese cosiddette ‘Superchampions’ di ItalyPost e L’Economia del Corriere della Sera va in questa direzione, così come l’indagine di Mediobanca-Unioncamere sulle oltre 4.000 Medie imprese industriali. Su questa via maestra del consolidamento dimensionale (anche mediante operazioni di crescita esterna, le famose M&A) occorre proseguire: ne trarrà giovamento il ritmo del progresso tecnologico e la proiezione sui mercati internazionali”.
L’ex direttore del Corriere della Sera e del Sole 24 Ore, Ferruccio De Bortoli, ha lamentato qualche giorno fa il fatto che la caduta dell’industria italiana “sembra non preoccupare nessuno” e che proprio “questo è il problema”: secondo Lei perché gli italiani, a partire dalla loro classe dirigente, sembrano rimuovere l’emergenza industria?
“Diciamo la verità: il commento del direttore de Bortoli andrebbe affisso all’ingresso di Camera, Senato e di tutti i ministeri: anche se non so quanti giorni vi rimarrebbe… Scherzi a parte, non è facile dare una risposta al ‘mistero’: ossia, i problemi che gravano sull’industria italiana e l’assenza del tema dal dibattito pubblico. Gioca certamente il fatto che per ragionare su questi temi occorre conoscere l’economia reale del Paese, che richiede tempo e fatica. Molto più semplice dichiarare, a favor di telecamera, qualcosa su – poniamo – ‘l’America profonda che ha votato Trump’ (qualunque cosa significhi questa stereotipata espressione). Vi è poi anche una responsabilità del mondo accademico che, per lunghi anni (decenni, in verità), ha relegato alla Serie B l’indagine empirica e temi di ricerca quali la nuova politica industriale (ora, piano piano, qualcosa sta cambiando). Ma sono solo due possibili cause del mistero – un mistero doloroso, vien da aggiungere – evocato da de Bortoli. Il tema merita di essere approfondito perché, se non nasce un movimento d’opinione, qualcosa come ‘La manifattura conta, eccome se conta’, temo che argomenti più à la page domineranno sempre la scena”.
Lei vive in una regione, l’Emilia-Romagna, che negli ultimi anni è stata la locomotiva dell’Italia anche grazie a un capitalismo delle medie imprese molto orientato all’innovazione e all’internazionalizzazione: che aria si respira di questi tempi?
“Che cos’è l’Emilia-Romagna, o, meglio, ‘l’ecosistema’ emiliano-romagnolo, lo dicono i suoi eccellenti risultati, per fare qualche esempio, in termini di export, ricerca e innovazione, lavoro femminile, diffusione degli asili nido, e così via; tutti risultati certificati da Istat, Eurostat, Commissione europea. Se i numeri sono considerati noiosi, allora conviene far parlare Claudio Domenicali, Ceo della Ducati, che a una precisa domanda del Corriere di Bologna (‘Portafogli tedesco, testa bolognese: la vostra forza è il Sistema territoriale?’) ha così risposto: ‘Fondamentale, importantissimo. A partire dal legame con l’Università (…), al fatto di trovarsi nella Motor Valley, un distretto fondamentale che funziona se c’è collaborazione. La Regione ha lavorato bene, anche sugli eventi. Ora c’è il tema della transizione ecologica: chi avrà innovato di più andrà avanti’. L’intervista è del 10 gennaio 2025. Beninteso, anche lungo la Via Emilia, così aperta agli scambi internazionali, la situazione attuale e le prospettive a breve termine destano più di una preoccupazione, come le crisi aziendali aperte purtroppo testimoniano”.
A proposito di preoccupazioni, soprattutto per gli imprenditori che emiliani, italiani ed europei che esportano, nel suo messaggio a Davos il nuovo Presidente americano Trump si è rivolto alle aziende europee con una proposta accattivante ma anche insidiosa e cioè che a chi tra esse andrà a investire negli Usa verrà applicazione una tassa del 15% ma su quelle che non lo faranno scatteranno i dazi. Lei come la valuta e che effetti potrà avere sulle aziende italiane?
“In effetti, è stato un crescendo di dichiarazioni e tutto lascia pensare che, presto, seguiranno decisioni. In campagna elettorale, si parlava già con insistenza, nello schieramento Trump, dell’imposizione di dazi fra il 10 e il 20% per i prodotti europei. Poi, giovedì scorso, è arrivata la dichiarazione del presidente a Davos: della serie, ‘bastone e carota’ dato il legame fra investimenti negli Usa e imposizione (o meno) di dazi. La parte rischiosissima della proposta è che tende a dividere i paesi della Ue su un argomento-chiave della costruzione europea qual è la politica commerciale. Con grande tempismo, qualche giorno prima e sempre a Davos, il candidato cancelliere della Cdu, Friedrich Merz, aveva parlato della necessità per i paesi Ue di mettere a punto una ‘joint proposal’ proprio per fronteggiare le possibili tariffe commerciali sui nostri beni. È un imperativo categorico andare in questa direzione, altrimenti non sono solo a rischio percentuali di export e punti di mancata crescita del Pil: sarebbero, più in profondità, a rischio le basi stesse della costruzione europea, della UE, che nei rapporti commerciali internazionali parla – come si suol dire – con “una voce sola”.
Se perfino gli Usa riscoprono la politica industriale, non crede che anche l’Italia e l’Europa dovrebbero svegliarsi con una politica industriale non nazionale ma di stampo continentale che vada oltre il Next Generation Ue e punti non solo a raccogliere le risorse finanziarie necessarie ma a scegliere direttamente dove indirizzarle individuando i settori dove la Ue può davvero competere nel mondo?
“Gli Usa la politica industriale l’hanno ampiamente riscoperta, come minimo, con l’amministrazione Biden (ma anche da prima): basti pensare, per restare agli ultimissimi anni, ai noti Inflation Reduction Act (Ira) e al Chips and Science Act, tutt’e due del 2022 con centinaia di miliardi di dollari in dotazione. Dopo il Next Generation Eu, da lei ricordato, oggi l’Unione ha la possibilità di seguire le lungimiranti indicazioni del Rapporto Draghi sulla ‘competitività’ e del Rapporto Letta sul ‘mercato interno’. Il filo rosso che lega i due report è, a mio giudizio, il grande ruolo attribuito agli investimenti in conoscenza: ricerca scientifica, innovazione tecnologica, formazione del capitale umano. Solo nel campo della R&S il divario che separa l’Ue dagli Usa è stimato nell’ordine dei 270-280 miliardi di euro l’anno: l’aumento poderoso degli investimenti sovranazionali è l’unica strada che abbiamo innanzi a noi per non perdere tutti le sfide del XXI secolo. Il Rapporto Draghi elenca poi una serie di settori – sono dieci – che meritano interventi specifici: dall’energia all’IA, passando per i semiconduttori e lo spazio. È in questa direzione che uno Stato membro come l’Italia può e deve dare il suo contributo: è un Paese fondatore dell’Europa unita; è la seconda manifattura d’Europa. Ma la Champions League, si sa, viene giocata ogni anno e guai cullarsi sugli allori”.
. . .
Franco Mosconi insegna Economia e politica industriale all’Università di Parma. È editorialista per il Corriere di Bologna, dorso cittadino del Corriere della Sera. La sua monografia sulla politica industriale, pubblicata da Routledge, si intitola: “The New European Industrial Policy. Global competitiveness and manufacturing renaissance” (2015). Fra i suoi lavori sul “modello emiliano”, ricordiamo il recente: “Modello Emilia. Imprese innovative e spirito di comunità” (Post Editori, 2023).