Il trascorrere dei giorni conferma che grande è la confusione delle idee sotto il cielo della finanza generata dalla decisione, tecnicamente inopinata, del presidente Renzi di chiamare in causa l’Anticorruzione con compiti di arbitraggio per risolvere le controversie tra le diverse parti coinvolte nelle vicende delle quattro note piccole banche; al pari di altre da sempre fiere e vittime della perniciosa ideologia politica del legame con il territorio.
Già il ricorso all’arbitraggio proposto dal presidente Renzi lascia intendere che nella sua visione politica dei fatti si debbano comporre e valutare due diverse responsabilità; quella del venditore delle “mele marce” (o dei manipolatori dei corsi azionari) e quelle del risparmiatore abbindolato dal pataccaro proponente, accreditando così il sospetto nell’opinione pubblica che la vigilanza regolamentare, ispettiva e informativa di Bankitalia e della Consob abbiano clamorosamente fallito.
Nulla di più manifestamente equivoco per la formazione di un a corretta opinione pubblica, che si spiega soltanto con la never ending story dell’attività politica tesa a guadagnare, costi quel che costi, consensi sul campo notoriamente assai reattivo dei risparmiatori. Consenso purtroppo egualmente invocato dall’industria finanziaria, spesso ancillare alla politica economica, nei suoi tre segmenti: creditizio, mobiliare e assicurativo.
La proposta di Renzi sottace volutamente il fatto che l’industria finanziaria, al pari di ogni altra industria, da ultimo vedi il caso della pataccara Volkswagen, è un’organizzazione complessa che, in assenza di efficaci controlli interni, consente comportamenti anche truffaldini nei confronti della clientela; organizzazione e controlli interni che dovrebbero bilanciare le diverse responsabilità del management, ma che quasi mai sono ben definite, ben contemperate e correttamente assegnate.
Un esempio di scuola è il conflitto tra coloro che, all’interno dello stesso intermediario, in osservanza delle disposizioni di vigilanza valutano il rischio associato ad ogni prodotto finanziario offerto alla clientela e coloro che sono incentivati a collocare prodotti che offrono il massimo di provvigioni per l’intermediario medesimo. Sono fatti a tutti noti, ma che sarebbe assurdo richiedere che sia la vigilanza a porvi rimedio. Ingenerare il dubbio che le responsabilità stanno fuori dall’industria finanziaria è negare la realtà di fatti.
Se i fatti di questi giorni fossero derubricati da crisi dei rami alti delle vigilanza, a fatti di “mala finanza” avvenuti a seguito dei comportamenti del management in cosciente dispregio delle norme di correttezza della condotta degli affari, il dibattito politico potrebbe più costruttivamente imboccare la strada, con ogni probabilità non portatrice di facili consensi immediati dovendo anche abbandonare l’ideologia del piccolo è bello, di come individuare alcuni provvedimenti che potrebbero potenzialmente contenere comportamenti truffaldini dentro l’industria finanziaria.
Ad esempio: la separazione tra banca commerciale banca d’investimento; la standardizzazione di prodotti finanziari da offrire alla clientela retail, i tempi e la commisurazione dei premi al management; i poteri del CdA sull’operato del management; i gruppi bancari e la funzione giuridica dei CdA delle società partecipate che deresponsabilizza le burocrazie ai vertici dei gruppi bancari, e così via . Questo dovrebbe essere il compito della politica economica, non quello di chiedere ad altri (caso mai con la veste di asettici organi tecnici politicamente neutri) di risolvergli problemi che questi fatti gli hanno posto sotto al naso.