Bilanci e prospettive, di solito, sono attività da fine anno. Dicembre è però un buon periodo solo per i bilanci, ma non lo è per fare previsioni. Istintivamente, infatti, si tende a proiettare sull’anno successivo quello che è successo in quello che si va a concludere. Una previsione fatta a dicembre suona invariabilmente astratta, meccanica ed estrapolativa. Proviamo allora adesso, mentre marzo sta per concludersi, a tracciare un bilancio provvisorio del 2016 e a disegnare qualche scenario possibile per la fine dell’anno.
È come in una battaglia. Prima che cominci si crede di avere un’idea di come finirà, ma già dopo qualche ora di combattimento la prospettiva cambia e si fa molto più realistica. Il primo trimestre, come ben sappiamo, ha avuto una caduta profonda e largamente inattesa dei mercati seguita da un altrettanto forte e inatteso recupero. Le motivazioni addotte per la caduta sono state molte. Ci sono stati prima la geopolitica, poi il petrolio in caduta libera, poi la crescita cinese, poi il cambio del renminbi, poi la caduta generalizzata delle materie prime, poi la crisi di fiducia nelle banche europee e poi il rallentamento della crescita americana.
Di tutte queste cause l’unica decisiva, a nostro avviso, è stata l’ultima. Anche le motivazioni addotte per spiegare la ripresa dei mercati sono state molte. Ci sono state la forte ripresa di petrolio e materie prime, la stabilizzazione del quadro cinese con l’adozione di misure fiscali espansive, la stabilizzazione del renminbi, l’attenuazione delle paure sulle banche europee, l’adozione di misure monetarie aggressive e innovative da parte della Bce, l’apparente rinuncia di due rialzi dei tassi da parte della Fed e, infine, il miglioramento in parte inatteso dei dati macro americani. Anche qui, di tutte queste cause ci sembra decisiva solo l’ultima.
La crescita americana è l’alfa e l’omega per l’economia globale e per i mercati finanziari. Una crescita buona (soprattutto se sorprendentemente buona) è in grado di reggere a tutto e di sostenere comunque i mercati. Può reggere a crisi regionali anche profonde, come è stato il caso delle crisi europee del 2011, 2012 e 2014 o del continuo rallentamento dell’economia cinese. Può assorbire complicazioni geopolitiche anche notevoli, come è stato il caso delle primavere arabe, della guerra in Ucraina, del crescente disordine mediorientale e degli episodi di terrorismo che sono andati infittendosi in Europa e in America.
Può assorbire agevolmente un dimezzamento del prezzo del petrolio, come è successo nel 2015 (da maggio a fine anno il greggio è sceso da 65 a 35, mentre l’SP 500 ha perso solo il 2 per cento). Può reggere anche ad aumenti dei tassi realizzati (come quello di dicembre) o attesi (come è stato per tutto il 2015, un anno in cui gli aumenti sono sempre apparsi dietro l’angolo). Al contrario, una crescita americana debole genera nei mercati uno stato di profonda apprensione, fa subito parlare di recessione globale imminente anche se i dati (come è stato in gennaio e febbraio) mostrano condizioni di crescita buona (in Europa) o normale (in Cina) nelle altre regioni del mondo.
Una crescita americana debole toglie altresì efficacia, agli occhi dei mercati, a eventuali misure espansive delle banche centrali, che vengono a quel punto vissute come disperate. E ingigantisce oltremisura qualsiasi problema o pseudoproblema, come è stato il caso del petrolio quando si è avvicinato ai 20 dollari o quando ci si è inventati a tavolino una crisi bancaria europea in febbraio. Se è così, il petrolio, la Cina, i tassi che aumentano in un dato mese e non nell’altro o gli acquisti di corporate bond che la Bce fa o non fa sono quelle che in inglese vengono chiamate aringhe rosse, cose cioè molto appariscenti che tendono a catturare l’attenzione ma che in sé non sono né così importanti né decisive.
L’economia americana ha avuto un brutto quarto trimestre 2015 e, per quello che si può capire, un buon primo trimestre 2016. Poiché i dati arrivano in ritardo anche di un mese e più, i mercati hanno preso atto (con grande sorpresa) della debolezza di fine 2015 tra gennaio e febbraio. L’arrivo di (sorprendentemente) buoni dati da metà febbraio in avanti ha coinciso, non a caso, con la ripresa generalizzata della propensione al rischio. Oggi ci pare che le cose siano in equilibrio. I dati di crescita positiva sono ormai scontati e non fanno più notizia, anche perché i portafogli, nel frattempo, si sono riposizionati facendo di nuovo spazio al rischio. Oggi fanno invece notizia i dati deludenti, fortunatamente ancora pochi, che fanno infatti ripiegare le borse. Il recupero dei mercati ci sembra quindi quasi terminato e, se vorrà proseguire, dovrà farlo molto più lentamente e con il solido supporto di dati macro (e societari) continuamente e consistentemente positivi.
Quanto alle aringhe rosse, che per quanto svianti possono comunque servire ai mercati per razionalizzare movimenti dovuti a fattori più profondi, petrolio e metalli industriali sembrano anch’essi vicini alla fine di questa fase di recupero. Per tutte queste ragioni abbassiamo la nostra visione dei mercati da positiva a neutrale, quanto meno per le prossime settimane. Il prossimo appuntamento, se la geopolitica non ci riserverà altre sorprese, è il referendum su Brexit del 23 giugno. Anche in questo caso dati macro americani faranno la differenza. Se i dati continueranno a essere buoni una eventuale vittoria degli Out comporterà solo una temporanea correzione globale, più modesta di quella di gennaio-febbraio. Se i dati, in quel momento, saranno invece mediocri, la correzione sarà più profonda, senza per questo essere l’inizio di un’inversione di tendenza strutturale.
Se invece vinceranno gli In vedremo un’ulteriore fase di recupero per le borse europee che, sempre a condizione che i dati americani rimangano almeno discreti, riusciranno per fine anno a recuperare tutte le perdite rispetto al primo gennaio. Come sarà allora la crescita americana da qui a fine anno? Nulla, al momento, fa pensare che ci si discosti troppo dal 2 per cento, la velocità che i sei anni passati hanno fatto segnare con grande regolarità. La Fed ha probabilmente un obiettivo ufficioso leggermente più basso (tra l’1.5 e l’1.75 per cento) e doserà gli aumenti dei tassi su questo target, studiato per evitare accelerazioni eccessive dell’inflazione salariale.
Se così sarà la borsa americana potrà chiudere l’anno con un modesto risultato positivo, aiutata in questo, almeno psicologicamente, da un petrolio che, dopo la correzione forse già iniziata, avrà modo di riportarsi vicino ai 50 dollari nella seconda metà dell’anno. La performance relativa dell’Europa, come abbiamo detto, sarà invece dettata dal risultato del referendum britannico, al momento molto incerto.