Si resta allibiti, incapaci di valutare per ora la portata del colpo tremendo che la Corte Suprema americana ha inferto due giorni fa alla propria credibilità.
Sembrava impossibile che un presidente degli Stati Uniti potesse cercare di rubare un’elezione, inventarsi brogli tutti smentiti da dozzine di cause legali perdute, cercare di mantenere il potere mandando qualche centinaio di invasati a spaccare le aule del Congresso per bloccare la nomina del vincitore. Sembrava impossibile che l’autore di tutto questo potesse condurre una nuova campagna elettorale parlando sempre di elezioni rubate, definendo “eroi” gli assalitori del Congresso, nel frattempo spesso condannati. E sembrava impossibile che la Corte Suprema possa far finta di nulla e dopo quattro anni non dare un giudizio su quei fatti, non dire cioè agli americani che hanno visto tutto in tv fino a che punto sono gravi. No, preferisce ignorarli discettando su vaghi principi. Protegge così l’inquisito, e anzi decide di rinviare ogni sentenza con bassi espedienti leguleici alle calende greche, oltre la consultazione del 5 novembre prossimo mettendole quindi al riparo da ogni effetto giudiziario dei fatti del gennaio 2021, negando così le ragioni stesse della propria esistenza. È chiaro, infatti, che un Trump neppure formalmente condannato, ma in qualche modo rimproverato per quei fatti, sarebbe un certo candidato alla sconfitta.
Tutto sembrava impossibile. Ma ora si deve ammettere che lo stesso apice giudiziario americano è risucchiato dal vortice trumpiano dove verità e menzogna si rincorrono e anzi è la seconda ad essere la prima. È successo senza ombra di vergogna alla Corte Suprema americana, a Washington, il 25 aprile 2024.
Il dibattito sull’immunità presidenziale: Trump davanti alla Corte Suprema
L’antefatto è noto, l’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2001, che tutti hanno seguito in tv. L’obiettivo è noto, cercare di spaventare il vicepresidente Mike Pence (“impicchiamo Pence” era il grido di battaglia) e i senatori che stavano ufficializzando i risultati del voto presidenziale, vinto da Joe Biden. Dopo una lunga indagine, che ha testimoniato le responsabilità di Trump, il Dipartimento della Giustizia ha spiccato l’accusa nell’estate del 2023, attraverso lo special prosecutor Jack Smith. Ma di fronte alla corte distrettuale federale di Washington Trump impugnava il tutto nel marzo scorso invocando l’immunità presidenziale: come presidente non poteva essere messo accusa per i fatti del gennaio 21. E si appellava alla Corte Suprema. Lo faceva anche Jack Smith, chiedendo una decisione rapida, subito negata.
Con calma, la discussione preliminare sull’immunità presidenziale veniva fissata nell’ultima settimana a calendario, il 25 aprile appunto. I nove giudici, sei di nomina repubblicana, tre democratica, ma tutti ovviamente tenuti in teoria a rispettare la legge non la parte politica, hanno interloquito prima con l’avvocato di Trump, D. John Sauer, poi con il legale del ministero della Giustizia, Michael R. Dreeben. Un responso ci sarà, forse, entro giugno. Ma poiché è chiaro, nella tecnica dilatoria adottata dai sei giudici repubblicani e da Trump in questo a altri procedimenti, che si vorrà definire meglio i contorni dell’immunità presidenziale affidando il compito alla corte federale di Washington, il dibattito vero e proprio e la presentazione delle prove, elemento schiacciante per Trump, ci sarà solo nel 2025, a voto concluso, che è quanto Trump vuole, data la sua convinzione di vittoria. E a quel punto qualsiasi verdetto sarà inefficace.
Il destino della democrazia americana
Già prima della seduta del 25 aprile Michael Dorf, costituzionalista alla Cornell Law School, aveva individuato un campanello d’allarme: non ci saranno molte speranze di giustizia, aveva detto, “se sentiamo qualche giudice porsi il pensoso quesito di che cosa potrebbe succedere se si sottovaluta l’immunità presidenziale nel caso Trump e aggiungere che questo aprirebbe la strada ad accuse criminali contro tutti gli ex presidenti. Se sentiamo questo, senza accenno anche tacito al fatto che nessuno dei nostri ex presidenti (e, con una preoccupante e potenziale imminente eccezione) nessuno dei nostri futuri presidenti rientrano nella categoria dei pericolosi narcisisti patologicamente bugiardi ai quali non importa proprio categoria nulla delle norme e istituzioni democratiche, non ci saranno speranze.
Puntuale, il “rischio” di toccare l’immunità presidenziale è emerso. Clarence Thomas, il più discusso e screditato (per corruzione) dei sei repubblicani si è chiesto che sarebbe successo a John Kennedy senza l’immunità parlamentare all’epoca dell’operazione Mangusta, un piano per far saltare il governo di Fidel Castro a Cuba. Mettere un’operazione politica clandestina, discutibile finché si vuole, sul piano di un imbroglio ai danni della nazione e per proprio tornaconto personale dà la misura del degrado morale. Si direbbe che il caustico H. L. Mencken era preveggente quando un secolo fa dichiarava che “mentre la democrazia si perfeziona, il ruolo del presidente rappresenta sempre più l’animo profondo delle persone. E un giorno glorioso la gente comune del paese vedrà realizzato ciò cui aspira dal profondo del cuore e finalmente la Casa Bianca verrà onorata dall’avere installato un vero mascalzone”. Del tutto onorato e servito dai vertici del potere giudiziario.
L’assalto al Campidoglio: il grande assente nel confronto tra i giudici
Se il punto centrale dell’avvocato Sauer è stato quello della intoccabile e teologica immunità presidenziale la procura federale, con Michael Dreeben, ha centrato tutto sul fatto che la non ben definita immunità presidenziale è comunque sottoposta al principio supremo, voluto da una Costituzione scritta da un popolo che si era ribellato a un re, e che sottomette tutti, anche il presidente, al potere della legge.
Ma non è bastato agli zelanti giudici repubblicani. Il più conservatore, l’italoamericano Samuel Alito, ha duellato con la collega Sonia Sotomayor e con Dreeben sui rischi che corre un presidente costretto a decidere su tutto e bisognoso di una tutela. Il sistema gliela offre, a partire dalla consulenza del ministero della Giustizia, tutta a sua disposizione, e da molto altro. “È sempre un rischio”, ha detto Alito. “È un sistema che, se alla fine non funziona, è perché abbiamo distrutto la democrazia con le nostre proprie mani, non è vero?” ha chiuso Sotomayor.
Alito è arrivato a sostenere che limitare l’impunità è una minaccia alla democrazia, perché ogni presidente potrebbe a mandato finito essere messo in galera, come già succede ha detto in vari Paesi. È vero il contrario”, ha risposto Dreeben. Esistono ha detto infinite procedure per dimostrare brogli elettorali. Sono stati fatti dozzine di ricorsi legali e sono stati persi tutti salvo uno. Esistono i tribunali. “Questa è la regola della nazione. Credo che la corte abbia familiarità con questo”, è stata la sua stoccata finale, i tribunali, non l’assalto al Campidoglio, che mai è stato nominato dai supremi giudici, pur aleggiando su tutto.
Assalto a Capitol Hill: ipocrisia, giustizia e il destino dell’America
“Pensiamo se durante il dibattito una folla avesse dato per protesta l’assalto al nobile edificio della Corte Suprema”, ha scritto sul New York Times un docente di diritto penale. “La folla rompe porte e finestre travolge gli agenti e invade l’aula. Alcuni urlano: impicchiamo il presidente della corte. Giudici e legali devono correre a mettersi in salvo. Passano ore prima che la polizia possa riprendere il controllo”. Ecco, forse una replica del gennaio 2021 al Campidoglio poteva spezzare la spessa nebbia di ipocrisia che ha circondato il 25 aprile giudiziario e ricordare quale fosse il nodo da sciogliere.
La maggioranza dei sommi magistrati ha scommesso quindi sulla vittoria di Donald Trump fra sei mesi. Vittoria possibile ma a oggi per nulla certa, e che peraltro la fraudolenta ignavia della Corte aiuta da un lato ma danneggia dall’altro, perché per molti elettori il voto sarà ormai una forma di verdetto popolare sostitutivo, per colpevole rinuncia, di quello dei giudici togati.
Max Lerner, immigrato zarista innamorato dell’America e interprete della sua natura, paragonava i supremi giudici ai grandi sacerdoti e la Corte alla grande cattedrale d’America. Sconsacrata, per il momento.
Non consola Bob Dylan, con la sua The Hurricane del 1975, una canzone di protesta per la condanna senza prove certe di un pugile, the hurricane appunto, all’ergastolo per omicidio e liberato dopo 20 anni per errore giudiziario. “Come fa la vita di un uomo così a essere nel palmo di qualche sciocco? Vedendo come il tutto è stato chiaramente imbrogliato, non fa che farmi vergognare di vivere in un paese dove la giustizia è a carte truccate”.