L’Eurozona continua a deludere. I segnali di stabilizzazione nel resto del mondo – pronunciati in Cina, mentre gli Usa continuano a godere di crescita moderata e stabile – non aiutano i Paesi dell’euro. Questi percepiscono le cattive notizie – tensioni geopolitiche, la sfibrante altalena (accordo sì, accordo no…) sui negoziati Usa-Cina, la clava dei dazi di Trump… – e non vedono le buone notizie (più spesa per investimenti privati e pubblici) perché non ci sono. Le elezioni inglesi dovrebbero porre fine alla saga Brexit, ma rimangono le incognite del dopo-Brexit.
L’Italia, complice la fibrillazione politica (che c’è sempre stata, ma al peggio non c’è mai fine…) rimane in coda alle prospettive di crescita.
Per l’inflazione, prove di rialzo. In Cina l’impennata dell’inflazione (al 3,8%) deve molto all’epidemia di febbre suina che ha fatto schizzare verso l’alto il prezzo del maiale. La dinamica dell’inflazione di fondo, tuttavia, è aumentata anche nell’Eurozona e in Italia, pur se i prezzi alla produzione fanno pensare che non siamo di fronte a una svolta. Le quotazioni di materie prime e petrolio non presentano variazioni di rilievo, anche se sono in prospettiva favorite dalle buone prospettive della produzione cinese, da molti anni il maggior consumatore di commodity.
I tassi su Bund e T-Bond mantengono il rialzo. I tassi a lunga, lo si notava il mese scorso, registrano contenuti aumenti e questi sono confermati. Là dove l’aumento è stato più forte è purtroppo per i rendimenti dei BTp, grazie all’incredibile polemica – vana e dannosa – sul Meccanismo Europeo di Stabilità, che ha dato l’impressione che l’Italia fosse prossima a dover chiedere l’aiuto del MES, mentre non ne ha alcun bisogno. Lo spread T-Bond/Bund sui tassi reali a lunga è in ogni caso in diminuzione, ciò che dovrebbe indebolire il dollaro. La moneta cinese conferma il deprezzamento sopra quota 7 yuan per dollaro, un’utile polizza di assicurazione nei confronti di sbandate sugli accordi commerciali Usa-Cina.