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La Cecenia, che fine ha fatto dopo due guerre? Ecco la storia

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La rissa fra ceceni e arabi avvenuta lo scorso week end a Digione, città francese della Borgogna, potrebbe forse spezzare la damnatio memoriae a cui la storia recente della repubblica caucasica è stata condannata dopo la cosiddetta “pacificazione” di Putin. Toh, i ceceni. Ma che fine avevano fatto?  

Giusta domanda. Riassumendo drasticamente la stragrande maggioranza di loro ha fatto una fine bruttissima, perdendo tutto dopo le due guerre con Mosca: libertà, indipendenza, onore dignità. Oggi la Cecenia è tornata ad essere un pezzo di Federazione russa, dove però la legge russa non conta perché Putin, pur di vincere la guerra contro gli indipendentisti,  ha “regalato” il Paese a una famiglia del posto, i Kadyrov, che si atteggiano a reali e governano secondo una sharia di seconda mano. Niente diritti civili e umani, le donne sottomesse, omosessuali (e giornalisti) in prigione, o sottoterra. Ma a nessuno nel mondo importa più. 

Sono finiti i tempi in cui i ceceni erano i buoni “combattenti della libertà”; ora sono o “terroristi islamici”, oppure non esistono, perché sono semplicemente abitanti della federazione russa. Come siamo arrivati a tutto ciò? Partiamo dal fatto la Cecenia, grande quanto il Lazio, con un milione e mezzo di abitanti, situata sulle montagne del Caucaso, è ed è sempre stata un pezzo del grande impero degli zar russi di ogni tempo. E da ogni tempo è stata in guerra con Mosca. Dal punto di vista amministrativo oggi è una delle 22 repubbliche tra le 85 entità federali in cui è suddivisa la Federazione Russa.

Per intenderci, nel sistema istituzionale russo una “repubblica” si differenzia dal resto delle entità federali perché la maggior parte di chi vi abita non è russo, tanto che il nome dell’etnia ne definisce l’identità. Tipo “Repubblica cecena”, appunto. Un nome di cui i ceceni si riappropriarono all’implosione dell’Unione sovietica, nel 1991. All’epoca il nuovo capo dei russi, Boris Eltsin, per cancellare meglio il passato comunista totalitario, ebbe la brillante idea di suggerire a tutti i soggetti dell’Unione di “prendersi ogni libertà di cui sarebbero stati capaci”. I baltici, Lituania, Lettonia ed Estonia, furono i più bravi e i più lesti: se la presero tutta e dissero subito addio a Mosca. Sostenuti un po’ dalla loro storia e molto dai Paesi occidentali, ai quali non parve vero strappare un pezzo di territorio al vecchio nemico.  

I ceceni fecero la stessa cosa dei baltici, ma con risultati tragici. Infatti quando il presidente Dzokar Dudaev, un vecchio generale dell’Armata rossa, formatosi guarda caso proprio nelle repubbliche baltiche, proclamò la nascita della repubblica cecena, Eltsin si rese conto di aver fatto una bella sciocchezza e che se fosse continuata così lo smembramento dell’antico impero sarebbe stato inevitabile. Perché dopo i baltici e i ceceni, anche i Tatari stavano prendendo posizione per fare parte a sé. Mentre gli ucraini se ne erano andati subito, i Paesi dell’Asia centrale pure. E poi chi altri? Insomma la Russia, esagerando un po’, rischiava di tornare ai confini che aveva al tempo di Ivan il Terribile.

Senza contare che per quanto riguardava la Cecenia, si stava parlando di petrolio e non solo di confini. E non solo una buona produzione locale, ma anche del passaggio sul territorio della repubblica caucasica di oleodotti e gasdotti russi. Non si poteva tollerare. Il tempo quindi di rimettere a posto un po’ le cose in casa propria, mettendo definitivamente a tacere vecchi e nuovi conservatori, bombardandone il quartiere generale asserragliato nel Parlamento della Casa Bianca (1993); di chiudere la pratica dell’autonomia col Tatarstan, che firma un accordo abbastanza rapidamente, e Eltsin è pronto ad occuparsi dei ceceni. Che, manco a dirlo, di patti che non parlino di piena indipendenza non ne vogliono sentire parlare.

Scoppia così la prima delle due guerre che hanno schiantato la piccola repubblica. Prima si tratta di solo di scaramucce verbali: ti ordino, devi fare ecc. Poi l’invasione con i carri armati. Siamo nel 1994, è dicembre, il giorno 9: 30 mila soldati russi attraversano il confine, inizia il primo conflitto, quello che qualcuno ha definito il “Vietnam” della Russia. Molte sono le analogie: i giovani soldati russi partono scontenti, non credono nella causa, non sono ben guidati. Insomma i ceceni, sebbene siano combattenti mal addestrati e irregolari, hanno dalla loro tre armi potenti: la determinazione, la causa e la conoscenza del territorio. Per farla breve, vincono il primo round della guerra (1994/1996), pur subendo perdite gravissime, prima fra tutti quella del loro presidente, Dudaev, che viene ucciso da un missile pare azionato dal suo stesso telefono satellitare.

Eltsin tratta e poi firma una pace alla quale fanno seguito delle elezioni che portano alla presidenza cecena uno dei generali vincitori, Aslan Mashkhadov, anche lui ex condottiero dell’Armata rossa. Sembrerebbe la fine della bella storia, con i buoni che vincono, ma per il piccolo Paese è solo l’inizio della tragedia vera. La Russia pur avendo perso la battaglia sul campo, non ha nessuna intenzione di mollare la guerra. Intanto ha i cordoni della borsa e non ha fretta di pagare i danni per la ricostruzione della Cecenia. Il Paese è devastato e la popolazione in ginocchio. Mentre, come accade spesso nella storia delle rivoluzioni, i capi cominciano a dividersi, ognuno volendo contare di più.

E il migliore di tutti, quello che le aveva suonate ai russi di santa ragione, Shamil Basaev, si trasforma in vero signore della guerra, con l’aggravante che sceglie la religione per rafforzare la sua immagine. Per esempio se ne va nel vicino Daghestan, per sostenere la rivolta locale orchestrata dai filo islamici pagati da Riad contro i russi e per costruire insieme con loro un unico grande Paese musulmano. Fallisce, ovviamente. Poi è accusato di alcuni attentati terroristici, alcuni sono opera sua, per esempio si attribuisce la più brutta strage che si conosca, quella nella scuola di Beslan, in Ossezia del Nord, in cui muoiono 186 bambini sulle 300 vittime; altri, seconda tradizione, vengono orchestrati dai servizi segreti russi.

Conclusione, nel 1999 la parola è di nuovo alle armi. A questo punto però a capo della Russia c’è un altro signore, si chiama Vladimir Putin, viene dai servizi segreti, per il momento è solo il primo ministro di Eltsin, ma ne farà di strada. Putin è deciso a estirpare la ribellione dal Caucaso costi quel che costi. Per lui sono solo “terroristi” e promette di “gettarli nel cesso” uno a uno, come si esprime nella prima intervista. Il colonnello è un uomo che ha letto i libri di storia e sa che essi possono aiutare a vincere le guerre. Per prima cosa deve smembrare il fronte già indebolito dei nemici e trovare un alleato. Lo trova: è Ahmad Kadyrov, il più religioso fra i ribelli, quello che istigava alla guerra santa contro le truppe russe. La proposta non si può rifiutare: l’intera Cecenia se fa fuori tutti gli altri. 

Kadyrov non ci pensa su moltissimo e cambia fronte: tradisce Mashkhadov, rovescia il debolissimo governo e ne diventa il nuovo capo. Riconosciuto ovviamente subito da Putin. Ma le cose non vanno secondo i desideri del nuovo zar. La seconda guerra cecena a questo punto doveva essere finita, invece risulta solo cominciata. Non durerà i 4 mesi che Putin ha previsto, si concluderà (se si può dire conclusa una guerra con i ceceni) dopo 10 anni, durante i quali le peggiori nefandezze saranno state perpetrate da entrambe le parti. Stupri, devastazioni, assassini, attentati: tutto il corredo che una guerra si porta dietro, nessuna barbarie esclusa. La Cecenia è spazzata via, Groznyi, la capitale, è un cumulo di macerie, tanto che nel 2003, l’Onu la definisce la “città più devastata” del mondo. 

E mentre la guerra infuria Putin cancella istituzionalmente l’esperienza indipendentista, governo e parlamento. Lo fa attraverso tre tappe: prima con un referendum fa approvare una nuova Costituzione che concede a Mosca il diritto di sciogliere il parlamento; poi lo scioglie; infine indice nuove elezioni. Nel frattempo con un plebiscito la Cecenia aderisce “volontariamente” alla Federazione russa e, quando in ottobre vengono indette nuove elezioni, le vince puntualmente Ahmat Kadyron. Ma il neo presidente non ha il tempo di godersi la vittoria perché dopo alcuni mesi viene ucciso in un attentato. Prende il suo posto il figlio Ramzan, che diventa il governatore de facto prima di essere eletto presidente nel 2007, carica che detiene tuttora.

Fino a quel momento della storia la simpatia del mondo occidentale è stata quasi tutta per i ceceni. Cosa cambia poi? Perché Putin vince anche sul fronte della propaganda? Perché i ceceni non sono più quelli del 1994: uniti, compatti, con l’unico obiettivo di combattere per l’indipendenza. Si sono divisi almeno in quattro fronti: quelli che hanno “tradito” la causa e stanno con Mosca; quelli che combattono i “traditori” e i russi guardando all’occidente, come Mashkhadov; quelli che invece pur ritenendo russi e “traditori” l’obiettivo, si sono convertiti alla causa islamica wahhabita, come Basaev. E poi ci sono le frange impazzite, quelli che sparano a qualunque cosa si muova, pronti a morire e basta. 

Dopo la strage nella scuola di Beslan, nell’Ossezia del Nord, il 1 settembre del 2004,  i “combattenti per la libertà” sono oramai “terroristi islamici” per il mondo: Putin e Kadyrov devono solo insistere un po’ di più con la repressione e la pacificazione sarà fatta. E dopo oltre 100 mila civili morti, 30 mila bambini mutilati, migliaia di profughi, la guerra finisce. Nel 2009 Putin proclama che “l’operazione antiterrorismo in Cecenia si è conclusa vittoriosamente”. Oggi la Cecenia è un feudo in cui la legge è quella di Kadyrov che si fa chiamare “re”. Il Cremlino gli ha dato carta bianca pur di non sentire più parlare di separazione o indipendenza. 

E lui ce la mette tutta a impedire che il fuoco sotto la cenere riparta: i miliziani di rango sono tutti morti, quelli di seconda fili sono scappati, i diritti civili e umani nel Paese sono calpestati sistematicamente, i giornalisti troppo curiosi fanno una brutta fine (vedi Anna Politkovskaja). Ma in questi ultimi dieci anni Groznij è risorta: oggi è una città moderna, con grattacieli superbi e belle strade. La più importante delle quali, lo avete capito, si chiama Prospettiva Putin. 

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