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La blockchain salverà il diritto d’autore? La scommessa della risorta Kodak

L’architettura della blockchain sarà per il business quello che Internet è stato per l’informazione: l’elimininazione di ogni intermediazione nei rapporti commerciali – E’ quello che sta cercando di fare la Kodak, ma la sua è una scommessa estendibile?

La blockchain salverà il diritto d’autore? La scommessa della risorta Kodak

Intermediario addio!

L’architettura della blockchain sarà per il business quello che Internet è stato per l’informazione. Una rivoluzione che potrebbe rendere tutto irriconoscibile di qui a pochi anni. La faccenda della blockchain è piuttosto complicata, ma significa una cosa semplice: l’eliminazione di ogni intermediazione nei rapporti commerciali. La blockchain ha la potenzialità di mettere in contatto diretto i produttori con i consumatori in una transazione di valore sicura e non alterabile.

L’eliminazione dell’intermediazione nel mondo dei contenuti è il sogno di Jeff Bezos e di altri innovatori libertari che hanno fatto della Silicon Valley la loro patria. L’architettura della blockchain fa proprio questo e lo fa bene. Per questo è nella top list delle innovazioni più calde e disruptive, anche se, come scrive il “Financial Times”:

la tecnologia della blockchain è nella sua infanzia e l’infatuazione borsistica per essa è molto distante dalla realtà. Alex Feinberg, un tecnologo che ha lasciato Google per dedicarsi alla blockchain, ha scritto:

I consumatori e i rivenditori inizieranno a vedere una proliferazione di servizi forniti senza la maledizione (o la benedizione) di un intermediario. Questo è ciò che bolle in pentola.

La blockchain è un database di transazioni in cui ogni nuovo accordo viene aggiunto alla catena, registrato e protetto con una equazione matematica. Il database viene distribuito e quindi condiviso su una vastissima rete di computer, detti nodi, così da rendere virtualmente impossibile per un agente esterno ogni modifica dei dati registrati. Questi nodi usano la loro potenza di calcolo per intercettare, verificare e decodificare l’ultima transazione che viene aggiunta come un blocco alla catena. Questa proprietà di costruire un archivio pubblico verificabile e non modificabile è la ragione per la quale questa architettura ha catalizzato l’attenzione degli operatori e del pubblico.

La scommessa di Kodak è estendibile?

Lasciamo un attimo da parte il rapporto tra l’architettura della blockchain e la speculazione sulle criptovalute, su cui ci sarebbe molto da dire, per concentrarti su un possibile ruolo di questa architettura nel commercio dei contenuti, dei diritti e dei beni immateriali. Qualcosa di molto importante per il futuro dell’industria dei media e del divertimento.

Qualcosa che sembra avere capito una delle società iconiche del XX secolo, la Kodak. La Kodak era divenuta l’emblema di quello che può succedere a un incumbent quando non riesce a raccogliere le sfide dell’innovazione e dell’evoluzione tecnologica. Per oltre un secolo la Kodak è stata il punto

di riferimento di un’intera comunità di creativi e di artisti, i fotografi. Oggi Kodak, con una mossa a sorpresa e per certi versi stupefacente, mira a rappropriarsene.

Kodak ha infatti annunciato che aprirà una piattaforma — la KodakOne — basata sull’architettura blockchain all’interno delle quale i fotografi e le agenzie potranno regolare, tramite una specifica criptovaluta, il KodakCoin, garantita da Kodak, i diritti e le licenze d’uso delle loro opere. Su KodakOne i fotografi potranno registrare e accreditare i loro lavori e quindi offrirli in licenza operando, attraverso il KodakCoin, la transazione tra l’artista e l’acquirente.

Viene da chiedersi se questo modello, basato sull’architettura della blockchain, possa essere esteso ad altri comparti dei media come la musica, i libri, la radio dove gli artisti si reputano oltre misura danneggiati dal vigente sistema di distribuzione dei contenuti digitali. Lo sarà senz’altro come spiega il libro di Melanie Swan, Blockchain, blueprint fo a new economy, edito da O’Reilly

Kevin Roose, il business columnist del New York Times magazine, nella sua rubrica “shift” che esamina l’intersezione tra la tecnologia, il business e la cultura, ha dedicato un lungo articolo alla scommessa di Kodak sulla bockchain. Siamo lieti di offrire ai nostri lettori degli ampi stralci di questo interessante intervento che nella sua interezza può essere letto qui.

L’effetto Lazzaro di Kodak

Un’eternità o due fa, Kodak era una impresa tecnologica d’estrema avanguardia. Aveva messo al lavoro i tecnologi migliori del pianeta, accumulato brevetti, sperimentato in modo pioneristico nuovi processi chimici e infine costruito un business enorme che nella sua stagione migliore dava lavoro a oltre 145mila persone.

Poi è arrivata la fotografia digitale a distruggere tutto e oggi della Kodak in genere si parla al passato prossimo. Si è indebolita a tal punto che nel 2012 ha portato i libri in tribunale.

Oggi a distanza di 130 anni dalla sua nascita sta effettuando un clamoroso ritorno basato sulla scommessa delle criptovalute. Si tratta di una scommessa coraggiosa che è piaciuta ad alcuni investitori ma ne ha lasciato altri assai perplessi soprattutto per i partner che Kodak ha scelto per questa avventura: un’agenzia di paparazzi, un promoter di azioni di bassa quotazione e infine una impresa che offre una “macchina magica per fare soldi”,

Nel gennaio 2018 Kodak ha prestato il suo nome a una valuta digitale chiamata KodakCoin che viene definita come “una criptovaluta fotocentrica” che offre la possibilità ai fotografi e alle agenzie di esercitare un decisivo controllo sulla gestione dei diritti sulle immagini. L’idea di base dietro KodakCoin è quella di usare l’architettura della blockchain per aiutare i fotografi ad amministrare i propri portafogli creando un catasto digitale delle proprietà, permanente e non modificabile dall’esterno. Kodak ha inoltre chiuso un accordo per un’attività di bitcoin-mining chiamata Kodak KashMiner, che permette agli utilizzatori di generare la propria cripovaluta.

Una blockchain per i fotografi

Kodak, fino ad adesso, è la più importante e conosciuta impresa a mettersi nell’avventura delle criptovalute. Un passo estremamente controverso: molti osservatori sottolineano che questa nuova

caratterizzazione di Kodak è un goffo tentativo di accaparrarsi soldi e attenzione facendo leva sull’effetto moltiplicatore del valore borsistico al solo dire la parola “blockchain”.

In una intervista, Jeff Clarke, chief executive di Kodak, ha dichiarato con una certa convinzione che le ambizioni Kodak sulla bockchain sono autentiche. Esaminando a fondo l’architettura della blockchain, Clarke si è detto convinto che questa è in grado di risolvere definitivamente un problema endemico del mondo della fotografia, quello di registrare la proprietà di un’opera, rintracciare le violazioni del copyright ed essere pagati per il suo uso.

Non siamo un’impresa di cibo per cani che crea la propria valuta — ha detto Clarke –, offriamo una soluzione alla gestione dei diritti digitali intorno a cui Kodak ha lavorato per molti anni.

In teoria i fotografi potranno caricare i loro lavori sulla piattaforma KodakOne, creare per ciascuna opera un sistema di licenza basato sulla blockchain e usare il software di scansione del web per catturare le violazioni del copyright. Invece che in dollari, i clienti potranno pagare in KodakCoin, una criptovaluta appositamente creata e garantita da Kodak.

Viene subito da chiedersi se i fotografi saranno disposti ad essere pagati con una criptovaluta piuttosto che in dollari. Si sa che la conversione delle criptovalute in moneta corrente non è proprio una passeggiata. Interrogati su questo punto i tecnologi di KodakCoin sono stati piuttosto vaghi e il Libro bianco di 40 pagine rilasciato da Kodak per descrivere i dettagli dell’operazione è piuttosto vago in proposito.

Gli improbabili partner del progetto Kodak

Non sbagliamoci. La gestione dei diritti digitali è un problema reale dei fotografi e la blockchain, in teoria, può offrire una soluzione importante. Ma gli attributi specifici di KodakCoin presentano qualche bandierina rossa. Che in primo luogo riguardano i suoi partner.

La prima: malgrado il nome, KodakOne in effetti non è un progetto Kodak. L’impresa dietro il progetto è Wenn Digital, un’impresa californiana affiliata a un’agenzia fotografica del Regno Unito specializzata nella licenza di scatti di paparazzi.

Seconda bandierina: il consigliere capo di Kodak, Cameron Chell, imprenditore canadese e conferenziere motivazionale, ha avuto nel 1998 qualche problema con la giustizia canadese che Chell attribuisce alla sua inesperienza e alla giovane età. Successivamente Chell si è riposizionato come esperto in criptovalute. Oggi è presidente di Appcoin Innovations, registrata come agenzia letteraria — Redstone Literary Agents — fino allo scorso anno quando si è trasformata in una società di consulenza per le imprese che vogliono sviluppare e integrare architetture di blockchain e criptovalute nel proprio business. Appcoin è oggi scambiata sul mercato delle stock penny (ricordate Wolf of Wall Street?). Appcoin Innovations riceverà il 20% di tutti i KodakCoin emessi e una quota dei proventi dell’offerta pubblica di 20 milioni che, se andrà a buon fine, porterà svariati milioni nelle sue casse.

I KodakCoin, una valuta non per tutti

Occupiamoci adesso dei KodakCoin. Verrebbe da pensare che una moneta che si propone “di democratizzare l’ambiente della fotografia” sia facilmente accessibile. Ma non è così. A causa dei requisiti normativi previsti dalla legislazione americana, i KodakCoin andranno appannaggio solo dei cosiddetti investitori accreditati. Si definisce investitore accreditato un soggetto con un patrimonio netto uguale o superiore al milione di dollari o con un reddito annuale superiore a 200mila dollari. Quanti fotografi milionari impallinati delle criptovalute conoscete?

Anche che la categoria dei fotografi riuscisse a rientrare in questi parametri, i creativi avrebbe molti problemi nello spendere i KodakCoin o nel convertirli in contanti. La SEC ha emesso un avviso che informa che i titoli venduti in offerte private, come i KodakCoin, sono difficili da rivendere e che agli investitori potrebbe essere richiesto di tenerli “indefinitivamente”. Un rappresentante di Kodak mi ha assicurato che i suoi token saranno alla fine distribuibili liberamente e che in futuro Kodak sarà in grado di emettere altri tipi di token che non sottostanno ad alcuna restrizione di convertibilità.

Nel Libro bianco si dice che i portatori di KodakCoin token potranno ricevere dei benefici supplementari come l’accesso a un market place per acquistare attrezzature. Potranno anche noleggiare studi per servizi fotografici o pagarsi le trasferte. Questi vantaggi però potrebbero avere problemi a materializzarsi.

Una slot-machine magica?

Gli esperti di criptovalute non sono neppure molto impressionati dal Kodak KashMiner, un dispositivo per minare bitcoin presentato al CES electronics trade show di Las Vegas. Stando alla pubblicità del KashMiner gli utenti dovranno pagare 3400 dollari per noleggiare per due anni il dispositivo che risolve complesse equazioni matematiche per attivare nuovi bitcoin. Metà dei bitcoin ottenuti dall’attività di mining, effettuata con il Kodak KashMiner, andranno a Spotlite, l’impresa che ha preso in licenza il nome Kodak. L’altra metà resterà al “minatore”.

Kodak non ha divulgato molti dettagli sulla sua KashMiner, salvo definirla una “macchina magica per fare soldi”. Il dispositivo, però, non sarà facile da vendere. Nella sua pubblicità al CES, Kodak stima che ciascun minatore che noleggia il motore per due anni può realizzare fino a 9mila dollari di ricavi. Gli esperti però valutano questa previsione molto gonfiata. Il mining dei bitcoin diventa sempre più complesso e il Kodak KashMiner non è altro che una versione riciclata del popolare motore per il mining dei bitcoin che può essere acquistato a metà del costo di noleggio richiesto da Kodak.

Sarà davvero quella di Kodak una macchina magica per fare soldi?

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