La Biennale di Venezia riparte finalmente. Non poteva chiamarsi meglio de “Il latte dei sogni” la 59sima edizione dell’Esposizione internazionale d’arte che riapre a Venezia il prossimo 23 aprile con un anno di ritardo a causa della pandemia nel pieno della guerra tra Russia e Ucraina. In una recente intervista l’effervescente curatrice della Biennale d’Arte di quest’anno, Cecilia Alemani, ha spiegato che, prendendo in prestito il titolo di un libro della pittrice surrealista Leonora Carrington – “Il latte dei sogni” appunto -, ha voluto alludere a “un mondo magico in cui tutto può cambiare con la forza dell’immaginazione”. Dunque, tutti alla Biennale, che quest’anno sarà Kolossal e molto femminile, caratterizzata dalla presenza del Padiglione ucraino e dall’assenza della Russia per sua stessa decisione. Ma prima di andarci non sarebbe male leggere il bellissimo libro di Paolo Baratta, già Presidente della Biennale stessa fino a due anni fa, “Il Giardino e l’Arsenale. Una storia della Biennale” (Marsilio editore, 470 pagine, 20 euro), il cui titolo è già un programma.
“Possiamo leggere questa storia della Biennale – si legge nella quarta di copertina del libro di Baratta – come quella della costruzione di un’istituzione e quindi come un contributo alla vita civile di un Paese“.
Al di là dei tanti aspetti che hanno caratterizzato la storia della Biennale lunga un secolo, alle tante battaglie politiche e culturali di cui essa è stata teatro, ai curiosi aneddoti che il libro non manca di raccontare (dalla rottura con Fucsas a quella con il ministro Urbani, solo per citarne qualcuno) Baratta pone al centro delle sue riflessioni e delle sue pagine tre temi che valgono a dare alla Biennale la giusta collocazione storica, culturale e politica.
Il primo, che va subito al cuore dei problemi, è questo: perchè la Biennale di Venezia è diventata negli ultimi vent’anni un’istituzione culturale di grande successo? Il secondo, non meno interessante, è: qual è oggi, in un mondo che cambia alla velocità del suono, la reale funzione della Biennale? Il terzo e ultimo, ma non per importanza, è per certi versi ancora più intrigante: il rilancio della Biennale può essere un benchmark e un modello per riformare anche altre istituzioni pubbliche?
Nessuno meglio di Paolo Baratta potrebbe rispondere con cognizione di causa a queste domande perché Baratta, che originariamente è un ingegnere ed economista (la prima laurea al Politecnico di Milano e la seconda ad Cambridge) , ha fatto molte cose nella sua vita: da banchiere a membro dei board delle Ferrovie dello Stato e poi di Telecom Italia, quattro volte ministro e infine Presidente di successo della Biennale per 16 anni.
Ma il suo nuovo libro, oltre a rivelare la sua grandissima passione per Venezia e per la Biennale, sembra proprio il testo giusto per rispondere alle curiosità che ruotano attorno alla Biennale, una delle istituzioni culturali più rilevanti e affascinanti al mondo e “un’occasione per ripercorrere oltre un secolo di storia della cultura e della politica nazionale e per rispondere a una domanda cruciale: è possibile fare cultura mediando efficacemente tra pubblico e privato?”. Ma – ecco il punto – si possono trarre degli insegnamenti di ordine generale dalle particolari condizioni di questa vicenda? Sì e vedremo come e perchè.
Il successo della Biennale. Tutto cominciò con la riforma del ’98
Sull’origine del rilancio e del successo della Biennale Baratta ha le idee molto chiare e le illustra con convinzione nel suo libro. Ricordo ancora la passione e l’entusiasmo con cui me ne parlò alla fine degli anni ’90 durante un occasionale incontro alla Malpensa e nel successivo trasferimento verso Milano. Lo spartiacque della Biennale – mi raccontò Baratta che poi argomenta dettagliatamente la sua convinzione nel libro – è stata la riforma dello statuto del 1998 grazie alla quale un ente pubblico del parastato con contabilità statale, dipendenti tutti pubblici e un pletorico cda di 19 membri veniva finalmente trasformato in “Società di cultura”, con un cda di soli 5 membri (presidente incluso), regolata dal codice civile, aperta a soci privati e dotata dell’autonomia e dell imprenditorialità che di lì a poco le avrebbe permesso di voltare pagina e di prendere il volo liberandosi dei lacci e lacciuoli politici e sindacali che ne avevano ingabbiato la vitalità. La riforma statutaria era la base delle successive innovazioni che concorsero a rendere di nuovo grande la Biennale e che le permisero di allargare le sue attività dall’Arte al Cinema, dall’Architettura alla Danza, dalla Musica al Teatro e di conquistare nuovi spazi vitali ai Giardini e all’Arsenale e nella rinnovata sede di Ca’ Giustinian. I numeri parlano da soli: prima della pandemia e delle guerra, dal 1999 al 2017 i visitatori della Biennale sono più che triplicati passando da meno di 200 mila a 620 mila.
Senza il nuovo Statuto la Biennale non avrebbe mai potuto fare quello che dopo il 1998 è riuscita a fare, però – parliamoci chiaro – anche il miglior Statuto del mondo non può fare miracoli se non trova le gambe e la testa delle persone giuste su cui camminare. E la nuova Biennale aveva trovato la passione, l’intelligenza e la determinazione di Paolo Baratta.
A che serve la Biennale ai giorni nostri?
Prima ancora di dire che cosa ci si attende dalla Biennale, bisogna chiedersi – scrive Baratta – “perché lo Stato ritiene opportuno attivare e sostenere un’impresa culturale che organizza un’esposizione internazionale d’arte. “Non certo per influire sugli indirizzi artistici ma per alimentare uno straordinario veicolo culturale utile alla diffusione della conoscenza” e “capace di conquistare stabilmente la fiducia dei visitatori e del mondo”. Se queste sono le finalità della Biennale “è naturale che da essa ci si debbano attendere aggiornamenti sull’evoluzione dell’arte contemporanea e selezioni d’opere e artisti effettuate seguendo il criterio della qualità e della vitalità del lavoro” contro le pressioni politiche ma anche le speculazioni del mercato. È così che la Biennale è riuscita a difendere la propria vocazione che è quella di “diffondere conoscenza, generare il desiderio una consapevolezza, sostenere la funzione dialettica dell’arte e della ricerca, promuovere la collaborazione e il dialogo tra i protagonisti della filiera”.
La nuova Biennale può essere un modello da esportare?
Il caso della Biennale e del suo successo, quantificabile anche nella straordinaria crescita dei visitatori, può certamente essere un benchmark per riformare anche la Pubblica amministrazione e per stabilire un rapporto virtuoso tra istituzioni pubbliche e private e tra istituzioni e politica. Ma a certe condizioni. Anzitutto facendo leva sui due elementi fondanti del nuovo statuto della Biennale: l’autonomia e l’imprenditorialità. Ma, come s’è ricordato anche sopra, oltre agli statuti servono i talenti delle persone. E serve anche la lungimiranza della politica, virtù purtroppo assai rara sia al centro che in periferia.
Il successo della Biennale è certamente stata il frutto di una alchimia fortunata ma non irripetibile, anche se certamente difficile. Non a caso Baratta conclude il suo libro riflettendo sul rapporto virtuoso tra la Biennale e Venezia: “Con quanto fatto dalla Biennale in questi anni abbiamo dimostrato che anche a Venezia molto si può fare. Se ne tenga conto e lo si usi come incoraggiamento” anche per l’Italia. Viva la Biennale.