Qui si celebrano messe, si ascolta musica, si accolgono i Papi e si tengono convegni su temi caldi e di attualità. L’ultimo, il 10 luglio scorso, aveva per titolo “Biffi e i migranti. Dal 2000 al 2018”, in memoria del Cardinale scomparso tre anni fa e vedeva contrapposti l’arcivescovo Matteo Zuppi e il sottosegretario di stato al turismo Lucia Borgonzoni, della Lega.
È San Petronio, la più grande chiesa gotica di mattoni del mondo, la quarta per dimensioni in Italia, la sesta in Europa, la più importante del capoluogo emiliano. Eppure, nonostante i suoi numeri, la centralità della posizione e il posto che occupa nel cuore dei bolognesi, ha il titolo di “basilica minore”, perché la chiesa episcopale è la cattedrale metropolitana di San Pietro.
Proprio questa “minorità” però rivela che San Petronio non è una chiesa della Chiesa, non è il simbolo del potere pontificio che per secoli ha dominato la città. È invece un’espressione del sentire popolare, è il tempio che i bolognesi hanno voluto per sé stessi e per il loro patrono, così poco noto fuori le mura del centro storico.
L’edificio affianca il Palazzo dei Notai, si confronta con Palazzo d’Accursio (sede del Comune), guarda in faccia il Palazzo del Podestà e tiene d’occhio Palazzo Re Enzo, dove lo sfortunato nipote di Federico Barbarossa visse e morì prigioniero. Occupa il posto d’onore in Piazza Maggiore, che è poi quella “Piazza Grande” celebrata da Lucio Dalla che abitava a pochi passi da questi luoghi. È la sintesi grandiosa della coscienza civile e religiosa della città. Il simbolo delle sue aspirazioni e dei suoi limiti.
La biografia stessa di Petronio lo testimonia, così come ricostruita nella versione “leggendaria” del monaci benedettini alla fine del 1100. Petronio è vescovo di Bologna fra il 431 e il 450 e si narra che la trovi in condizioni disastrate a causa delle invasioni barbariche e avvii così una campagna di ricostruzione a partire dal complesso di Santo Stefano. Dall’imperatore romano Teodosio II avrebbe ottenuto molti benefici: l’ampliamento del circuito murario, la garanzia della perpetua autonomia civica, la protezione imperiale contro ogni forma di tirannia straniera, la concessione dello Studium, ovvero dell’Università. Una lettura politica del Santo che diventa la sua impronta digitale e che si stampa a fuoco sulla carta d’identità della città stessa.
È nel 1253, nel secolo d’oro di Bologna, all’era della repubblica dei Notai, quando gli schiavi vengono liberati e il geniale Rolandino de’ Passeggeri domina la scena, che il libero Comune decide di elevare Petronio alla dignità di principale patrono, in sostituzione di San Pietro, che incarna il potere temporale dei papi. Un secolo dopo è il Consiglio dei 600 del Comune, una sorta di assemblea politica cittadina, che decide di dedicare al patrono prescelto un tempio votivo e civico. La posa della prima pietra è del 1390, il progetto originale di Antonio di Vincenzo è faraonico e prevede 183 metri in lunghezza e 137 metri per il transetto. Quel progetto, nella sua completezza, non viene mai portato a termine, per ragioni di soldi e di sviluppo della città, perché i tempi di realizzazione dell’ambizioso monumento sono lunghi e intanto cresce il bisogno di spazio per altri edifici. Purtroppo anche i disegni e il modello in legno in scala 1/12, di 15 metri circa, spariscono, distrutti in un incendio. Benché incompleta, nell’arco di sei secoli e più, San Petronio è testimone di mille fatti e misfatti, i più noti nel ‘500, a partire dalla distruzione nel 1511, da parte dei seguaci dei Bentivoglio, della statua in bronzo di papa Giulio II, realizzata da Michelangelo. Non si guardava certo al valore dell’opera, ma a ciò che essa rappresentava e cioè il dominio papale su un luogo simbolo di libertà e autonomia. Nel 1530 la basilica viene scelta per l’incoronazione di Carlo V a imperatore del Sacro romano impero. Pochi anni dopo ospita una parte dei lavori del Concilio di Trento.
Mantiene la sua autonomia da Roma fino al 1929, quando viene trasferita alla diocesi e viene consacrata nel 1954, quando arriva anche la dichiarazione di fine lavori. Sono passati 564 anni dal pronti via, un tempo superiore persino agli appalti di oggi. Le misure sono più piccole del progetto iniziale, ma restano di tutto rispetto: 132 metri di lunghezza, 66 di larghezza, 47 di altezza. Le spoglie di San Petronio, prima ospiti della basilica di Santo Stefano, vi trovano pace dall’anno 2000.
Fra le tante opere d’arte che contiene si segnala Il portale centrale, capolavoro di Jacopo della Quercia avviato nel 1425. Sui pilastri sono rappresentate scene dell’Antico Testamento, sull’archivolto 18 profeti, sull’architrave storie del Nuovo Testamento e sul timpano la “Madonna con Bambino” e “Sant’Ambrogio e San Petronio”. Il centro dell’arco del timpano è opera di Amico Aspertini.
Da vedere è la Meridiana più grande del mondo, che misura 67 metri e attraversa il pavimento della chiesa fin dal 1657. A realizzarla fu Domenico Cassini, professore di astronomia, convinto che il moto dei pianeti dipendesse da quello del Sole. L’idea di Cassini alla fine risultò vincente: non solo riuscì a dimostrare che il Sole ha due tipi di moto, uno reale e uno apparente, ma la sua meridiana, pari alla seicentomillesima parte del meridiano terrestre, si affermò come strumento di precisione. Uno strumento che ancora oggi permette di riconoscere il mezzogiorno solare per tutto l’anno, in qualsiasi stagione.
Infine ricordiamo l’affresco che raffigura Maometto e che fa di San Petronio uno dei luoghi a rischio attentanti, anche se, come spiegava anni fa su Avvenire, il primicerio della basilica, don Oreste Leonardi la raffigurazione non dovrebbe risultare offensiva. “Il riferimento a Maometto è l’indicazione del fatto che egli avrebbe infranto l’unità della Chiesa (giacché nel Medioevo si pensava all’Islam come a uno scisma cristiano), e ora è la sua stessa persona che viene lacerata nella sua integrità”. Una rappresentazione che, secondo il primicerio, è coerente con l’epoca in cui viene dipinta e con i versi della Divina Commedia, da cui l’affresco trae ispirazione. “E’ la tragica rappresentazione di una umanità destinata a perdersi, se non recupera il senso vero della propria vita”.