La formazione del Direttorio della Banca d’Italia si va definendo. Manca ancora la conferma per un nuovo mandato al vicedirettore Signorini, ma il clima politico più disteso – almeno così è accreditato da tutti i mezzi di informazione – prospetta che anche questa casella verrà quanto prima colmata. Tutto è bene quel che finisce bene, dunque? No, non direi, e per più di un motivo.
Intanto, il fatto che la trattativa tra le forze della maggioranza al governo e le istituzioni – la Banca d’Italia e la Presidenza della Repubblica – si sia conclusa con la promozione di Fabio Panetta a direttore generale, consentito dal nobile passo indietro di Salvatore Rossi, e l’ingresso di Daniele Franco ed Alessandra Perruzzelli – persone più che degne ed esperte – non cancella il fatto che una trattativa ci sia stata ed anche accesa. Non cancella il fatto che la composizione del Direttorio è frutto di un compromesso raggiunto dopo che la vicenda era stata avviata con un vicepresidente del consiglio che reclamava addirittura un azzeramento dei vertici della Banca con il duplice scopo di dare una dimostrazione tangibile del “cambiamento”, e soprattutto di infliggere una imperitura sanzione ai presunti responsabili delle presunte mancanze della Vigilanza in relazione al dissesto delle quattro banche prima e delle due a seguire. Non cancella soprattutto il fatto che le nomine hanno avuto bisogno di un informale benestare dei due vicepremier con la conseguenza che gli stessi vicepremier avranno modo di strumentalizzare come effetto del “cambiamento” da loro imposto – e non importa se, nel merito, a torto o a ragione: oggi nell’agone mediatico qualsiasi tesi può essere espressa e sostenuta – le future decisioni della Banca soprattutto in relazione alla funzione di vigilanza sulle banche e di tutela del risparmio.
Non manca chi ha osservato che anche in passato queste nomine sono state oggetto di trattative politiche e compromessi, così come non sono mancate incursioni della politica sull’operato della Banca. È vero, certo: ma mai con la esplicita rozzezza e la palese violazione del principio della separazione dei poteri tra le diverse istituzioni che Montesquieu pose a fondamento dello Stato di diritto con particolare riguardo, in questo caso, della prevaricazione delle istituzioni basate sulla rappresentanza – il ritornello è “noi siamo stati votati, loro no” – e quelle basate sulla competenza (non a caso Guido Carli andava ripetendo che la Banca Centrale opera come una magistratura tra l’attività di governo e il sistema monetario e finanziario che allora si esprimeva con il tasso di cambio; oggi con i tassi di interesse e lo spread).
Ma c’è dell’altro che impedisce di considerare la vicenda conclusa, e per di più conclusa bene. Intanto la circostanza che la violazione del principio di Montesquieu connota di sé nuovi capitoli sui quali ora non è il caso di fermarci: una inquietante, per quanto bislacca, mozione della maggioranza sulla proprietà della riserva aurea della Banca d’Italia e la disputa attorno alla presidenza della nuova commissione di indagine sul sistema bancario che leghisti e pentastellati vorrebbero affidare ad un campione del populismo che altri meriti non ha se non quello di aver condotto una trasmissione televisiva di sommaria contestazione di ogni istituzione e di ogni potere costituito.
Inoltre, la vicenda non può essere considerata conclusa se si pone mente alle due persone che faranno ingresso nel direttorio della Banca d’Italia. La Perrazzelli (individuata da cacciatori di teste, e sarebbe interessante sapere incaricati da chi) gode di un ampio credito personale supportato da un curriculum di tutto riguardo. È quanto meno curioso, tuttavia, che per un così rilevante ruolo in una così rilevante istituzione come la Banca d’Italia sia stata individuata una top manager della Barclays negli anni in cui il grande gruppo bancario internazionale decise di uscire dall’Italia a seguito di una valutazione profondamente negativa sul futuro del nostro Paese.
Quanto a Daniele Franco, persona anch’egli di riconosciuto valore, è ben più di un sospetto considerare che il fine della sua nomina sia soprattutto quello di rendere disponibile la carica di Ragioniere generale dello Stato. Sempre nel quadro della grossolana concezione che i due vicepremier hanno del funzionamento di una democrazia rappresentativa, non sono mancate violente polemiche con la Ragioneria, colpevole di opporre la esiguità delle risorse a fronte delle fantasmatiche promesse che l’una e l’altra componente della maggioranza avevano fatto per rastrellare i voti.
Il vice pentastellato, in particolare, arrivò a “esigere” che la Ragioneria reperisse le risorse necessarie per attuare i programmi che i cittadini avevano votato ritenendo il diniego una insubordinazione alla volontà o, meglio, alla sovranità del popolo. Ecco perché la polemica con la Banca d’Italia non può essere affatto considerata conclusa e perché, al contrario, si arricchirà delle pressioni per insediare alla Ragioneria una persona, per così dire, più accondiscendente e comprensiva di quanto il dottor Franco non abbia dimostrato. In ogni caso, le ferite inferte alla credibilità delle istituzioni lasceranno cicatrici; con buona pace di chi va sostenendo che l’autonomia della Banca d’Italia sia stata rispettata.