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Krugman, Stiglitz, la crisi greca e il New Deal europeo che non c’è

Si dice che gli economisti liberal, in particolare Krugman e Stiglitz, si siano sovraesposti appoggiando a spada tratta il referendum di Tsipras, che poi è dovuto venire a più miti consigli. Si adombra che tali atteggiamenti sarebbero parte di una “guerra non dichiarata” all’euro, ben oltre lo scetticismo di lungo corso sulla valuta unica europea che questi economisti avevano già mostrato. A farlo, sul Corriere del 22 scorso, è la penna intelligente di Federico Fubini, con argomentazioni da prendere in considerazione. Penso che sia del tutto legittimo criticare anche premi Nobel dell’economia. Però ritengo sbagliato guardare alla crisi greca – la dimensione micro – senza considerare come essa sia parte di una crisi più grande – la dimensione macro – cioè quella europea.

A me pare che il problema non riguardi solo la Grecia ma l’esistenza stessa di un’Europa unita o meno. Un’Europa che pur avendo al proprio interno le possibilità di reagire alla crisi partita sei anni fa mostra il fianco e non riesce a uscirne. Oggi viene al pettine il nodo greco, domani, se si continua con lo stesso approccio, verranno al pettine il nodo italiano, spagnolo, portoghese, ecc.. Una Ue che non sa rilanciare la crescita economica non ha futuro e prima o poi si rompe.

Ovviamente, quando iniziò, nel 2010, le responsabilità quasi intere della crisi erano della Grecia, che aveva truccato i conti. Ma oggi, a più di un lustro di distanza, con varie ristrutturazioni del debito greco, riforme greche solo timide e politiche di austerità fiscale controproducenti, le responsabilità sono diffuse. Oggi mantenere un approccio ragionieristico volto a far pagare il debito allungandolo, persino abbattendolo un poco e abbassando i tassi non basta più. Bisogna far crescere l’economia per rendere quel debito sostenibile.

Le riforme all’interno dei singoli Paesi vanno nella direzione giusta: migliorano le condizioni di offerta ma non bastano. Ci vuole anche una capacità di generare domanda aggregata, che deve venire da Bruxelles, che deve esprimere politiche per la crescita, ben oltre quanto nel Piano Junker (solo 20 miliardi di capitali freschi e tanti buoni auspici irrealizzabili). Non serve a niente essere competitivi, avere salari bassi e tutto il corredo di benefit portati dalle riforme se poi non c’è domanda aggregata. Schaeuble e i responsabili della politica dell’austerità dovrebbero essere rinchiusi in un’aula a imparare la teoria generale di Keynes. Solo così saprebbero che c’è un problema di domanda aggregata nell’Europa di oggi. E saprebbero che gli Usa uscirono dalla depressione economica seguita alla crisi del ‘29, in presenza di una disoccupazione al 25%, con un New Deal, creando posti di lavoro, facendo investimenti infrastrutturali e accrescendo così la domanda aggregata. Se i Paesi che hanno la crisi del debito non possono svalutare la moneta, espandere la spesa pubblica e possono solo fare le riforme pro concorrenziali nel Paese, non ce la fanno. Come si creano i posti di lavoro senza domanda aggregata? In Europa i Paesi che sono andati meglio sono stati trainati dall’export cioè dalla domanda aggregata degli altri, non dell’Europa. Anche a noi viene detto esportate di più… ma è irresponsabile. Un’area economica che è tra le principali del mondo non può permettersi di basare la crescita sulla domanda aggregata degli altri. Tanto più oggi che anche l’economia cinese mostra netti segni di rallentamento.

Insomma, è l’intera Europa ad avere un deficit di crescita e persino Paesi assai concorrenziali e dai fondamentali macroeconomici solidi come la Finlandia sono da anni in stagnazione. L’OCSE ci dice che la persistente disoccupazione giovanile elevata – specie nei Paesi colpiti dalle crisi sovrane – produrrà un depauperamento permanente di capitale umano, un disastro in termini di accresciuta disuguaglianza e povertà.

Di fronte a questo scenario non ha molto senso difendere lo status quo e identificare teorie del complotto che viene da oltre oceano. I principali responsabili della situazione in cui ci troviamo sono solo in Europa. Era noto a tutti quelli che lo volessero vedere – non solo a Krugman e Stiglitz – che l’area dell’euro alla sua nascita non era, in termini tecnici, una “area valutaria ottimale”. Però anche le aree non ottimali possono divenire ottimali nel tempo se si adottano politiche adeguate a favorire la convergenza tra i vari Paesi membri. È qui che sono stati commessi errori imperdonabili viziati da una sbagliata visione. Dapprima si sperava, infatti, che la convergenza tra Paesi euro sarebbe stata automatica. Così non è stato e non poteva essere. Al contrario, anziché favorire la convergenza l’euro ha per molti anni favorito la “divergenza” tra i Paesi membri.

Da un lato l’abbassamento strutturale dei tassi di interesse ai livelli tedeschi ha prodotto un allentamento dei vincoli di bilancio nei Paesi periferici. Per i privati ciò ha significato mutui a basso costo, scatenando bolle immobiliari della cui esplosione in molte parti d’Europa ci si sta ancora leccando le ferite. Per i governi ha indotto un abbassamento della soglia di attenzione su deficit e debito pubblico. Ad esempio, è sotto gli occhi di tutti come in Italia, tra il 1998 e il 2010, i minori oneri da interessi (svariate decine di miliardi all’anno) non siano stati usati per abbattere il macigno del debito pubblico o abbassare le tasse, lasciando invece crescere il resto della spesa pubblica, troppo spesso improduttiva (per usare un eufemismo).

Dall’altro lato, le economie forti – in primis la Germania – hanno ulteriormente accresciuto la loro competitività non solo con aumenti di produttività più ampi che nei Paesi periferici ma anche con più marcate politiche di moderazione salariale. Esperti (europei) del calibro di Paul De Grauwe ritengono che la mancanza di coordinamento delle politiche salariali, che ha prodotto dinamiche drammaticamente divergenti tra la Germania (salari troppo bassi) e i Paesi periferici (salari troppo alti), sia uno dei principali (se non il principale) detonatori della crisi dell’euro.

Per tornare all’argomento toccato sopra, è giusto chiedere ai Paesi deboli, che sono stati protagonisti di quella “divergenza”, di rimettersi in carreggiata adottando riforme pro-concorrenziali e, quindi, un’offerta aggregata più competitiva. Ma tali riforme debbono essere accompagnate da un New Deal europeo che crei al tempo stesso anche la domanda aggregata. Altrimenti le economie periferiche verranno clinicamente guarite ma, purtroppo, con encefalogramma piatto. E vi è pure il rischio che il disagio sociale porti questi Paesi, attraverso elezioni democratiche, a esprimere governi che non vogliono più bere quelle medicine, scatenando conflitti i cui contorni è difficile configurare.

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