C’è qualche speranza che le cose possano cambiare in Kosovo, il paese “congelato” nella stessa situazione politica dal 1998? Meno di 2 milioni di abitanti (1.769.380, stima 2022), che vivono in una regione grande più o meno la metà della Puglia (10.887 km quadrati). Il Kosovo è ancora oggi un territorio rivendicato dalla Serbia.
Certo, è autogovernato, ma è ancora sotto il protettorato delle Nazioni Unite, ed è riconosciuto come Stato indipendente da 98 Paesi membri dell’Onu su 193, e da 22 su 27 tra quelli appartenenti alla Ue.
Eppure, forse qualcosa si muove in queste settimane. Perché sia Pristina, sia Belgrado, sanno che il loro futuro ha un solo nome e si chiama Comunità Europea. E il treno va afferrato ora.
Kosovo-Serbia: dopo le tensioni si parla di un nuovo accordo
Kosovo e Serbia si avvierebbero così a firmare un nuovo accordo. Entrambi i Paesi dell’ex Jugoslavia hanno tutto l’interesse a mettere la parola fine a questo conflitto che, non solo tiene alta la tensione in quella parte d’Europa da 25 anni, ma ora allunga la miccia della guerra russo-ucraina sempre più vicino al cuore del continente.
Tutti gli analisti rivelano in verità che il dialogo e la riconciliazione appaiono ancora molto difficili.
Le ostilità sotterranee si sono tradotte negli ultimi mesi talvolta in barricate di confine, altre in violenze e sparatorie, altre ancora in guerre incomprensibili, tipo quella delle targhe automobilistiche ingaggiata dalle autorità di Pristina contro i concittadini serbi.
Anche l’Italia in questi giorni è coinvolta nei colloqui con il premier kosovaro, Albin Kurti, e il presidente serbo, Aleksandar Vucic, insieme con la Francia e la Germania, il rappresentante Ue e quello Usa.
Il piano europeo sul Kosovo
L’accordo sul quale si sta lavorando non è pubblico, ma secondo indiscrezioni, pur senza un riconoscimento ufficiale serbo, ciascuna delle due parti accetterebbe l’integrità territoriale dell’altra e entrambe scambierebbero missioni permanenti. La Serbia acconsentirebbe all’ingresso del Kosovo nelle Nazioni Unite, chiedendo di mettere in pratica uno dei punti degli accordi di Bruxelles del 2013, mai realizzato, e cioè la creazione dell’Associazione dei comuni a maggioranza serba in Kosovo. In cambio otterrebbe un canale preferenziale nel processo di integrazione nella Ue, iniziato più di dieci anni fa e rallentato proprio per la instabilità provocata dalla questione del Kosovo.
Vucic ha presentato il piano di pace al suo Paese come una specie di ultimatum da parte della Ue, insistendo su uno scenario drammatico per Belgrado perché l’interruzione del processo di integrazione europea significa il ritiro di tutti gli investimenti occidentali nel Paese e l’isolamento politico.
Il legame Russia-Serbia rimane l’ostacolo maggiore
Facile allora per lui proseguire su questa strada? Non proprio perché se la Serbia dal punto di vista economico è strettamente legata all’Europa, primo partner commerciale con il 65% degli investimenti stranieri diretti, il suo principale alleato politico resta la Russia. Non dimentichiamo che, insieme con la Bielorussia, la Serbia è stato l’unico Paese europeo a non sanzionare la Russia per l’invasione dell’Ucraina; e che Belgrado ha sempre potuto contare su Mosca per ostacolare il processo di indipendenza del Kosovo. Comprensibile allora la fretta che spinge gli europei a vedere siglati gli accordi che dovrebbero definitivamente normalizzare i rapporti tra i due Paesi: il fronte occidentale comprende benissimo che Putin, pur non essendo direttamente coinvolto, è il principale beneficiario delle tensioni.
Kosovo-Serbia: che cosa è accaduto in questi 25 anni?
Partiamo dal 1998, quando iniziò il conflitto aperto fra la Serbia e il Kosovo, la penultima delle cinque guerre jugoslave (1991-2001: Slovenia, Croazia, Bosnia ed Erzegovina, Kosovo, Macedonia), unica a coinvolgere direttamente la Nato e che portò a bombardare Belgrado.
Il conflitto vero e proprio era cominciato nel febbraio di quell’anno, dopo che molti kosovari si erano convinti a passare alla lotta armata ingrossando le fila dell’Esercito di liberazione del Kosovo (UCK), organizzazione che trovava “inutile, insopportabile e umiliante” la resistenza passiva e pacifica di Rugova, primo presidente della Repubblica autoproclamata, nei confronti di Belgrado. Il Paese era sconvolto da attentati, carneficine da una parte e dall’altra, mentre i profughi a migliaia correvano a rifugiarsi verso i Paesi confinanti, soprattutto in Albania, seconda patria per i kosovari, uniti agli albanesi per lingua e cultura. Dopo molto discutere il 13 ottobre la Nato attivò l’ordine di esecuzione degli attacchi aerei.
Alla base di quella decisione c’era la risoluzione 1199 del 23 settembre del 1998, approvata dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, Russia compresa quindi, nella quale si esprimeva “grave preoccupazione” per le notizie secondo cui 230mila persone erano state sfollate dalle loro case a causa di “eccessi ed uso indiscriminato della forza da parte delle forze di sicurezza serbe e dell’esercito jugoslavo”; chiedendo a tutte le parti di cessare le ostilità. Di quei 230mila sfollati almeno 30mila si trovavano nei boschi, senza vestiti pesanti o riparo, con l’avvicinarsi dell’inverno. Notizia che potemmo verificare di persona, raggiungendone alcuni gruppi nel campo profugo di Kishna Reka, un villaggio a una trentina di chilometri da Pristina, poiché eravamo fra i giornalisti andati sul posto per seguire da vicino gli avvenimenti.
Un conflitto impossibile da fermare
I bombardamenti sarebbero dovuti iniziare nel giro di 96 ore. Poi furono rinviati nella speranza che sopraggiungesse un qualsiasi tipo di accordo. Un rinvio che si sarebbe protratto poi fino al 24 marzo del 1999, ma in quel momento nessuno poteva saperlo.
Rileggendo gli articoli che scrivemmo in quel periodo ritroviamo l’atmosfera che precede, forse, l’inizio di ogni conflitto impossibile da fermare: kosovari e serbi si rinfacciavano con odio soprusi presenti e passati, auspicando entrambi la stessa cosa, che alla fine un evento straordinario, pazienza se violento, potesse mettere fine alla valanga che si era messa in moto. Mentre i profughi senza vestiti e con poco cibo, che per rifugio avevano solo gli alberi fitti dei boschi, volevano solo una cosa: che tutto finisse il più presto possibile.
Kosovo-Serbia: non fu la guerra più lunga ma batté altri record
La guerra non fu drammaticamente lunga come quelle in Croazia o in Bosnia Erzegovina (1991-1995), durò meno di 3 mesi, da marzo a giugno. E tuttavia essa sarebbe rimasta nei libri di storia per altri record: 38mila missioni furono lanciate dalla Nato, più di mille gli aerei coinvolti, che partirono principalmente da casa nostra, dalle basi in Italia e dalle portaerei di stanza nell’Adriatico.
Alla fine, l’11 giugno del 1999, fu firmato l’”Accordo di Kumanovo” che fece cessare le ostilità, ordinò il ritiro delle truppe federali di Belgrado e stabilì nella regione un protettorato internazionale sotto l’egida dell’Onu.
Il Kosovo pensava di aver vinto, ma arrivò Putin
I kosovari avevano vinto la loro battaglia. E come gli sloveni, i croati e i bosniaci, essi pensarono di aver sciolto per sempre il loro legame con la Serbia. Ma non fu così. Perché un’ombra scese su quel piccolo pezzo d’Europa, quella del Cremlino. Arrivando Putin al potere, a mano a mano che la Russia riprendeva fiato e autorevolezza sul teatro mondiale, i “fratelli” serbi guadagnavano un avvocato fortissimo dentro il Consiglio di Sicurezza dell’Onu. E l’indipendenza del Kosovo fu “congelata”.
A chi si chiedesse perché i serbi ci tengono tanto al Kosovo, rispondiamo come raccontano a Belgrado: è il luogo della loro identità. Lì, a Kosovo Polje, la Piana dei Merli, che ha dato il nome a tutta la regione, si svolse nel 1389 una storica battaglia fra i cristiani, capeggiati dall’esercito dell’alleanza dei regni serbi, e gli ottomani, che vinsero lo scontro. Un’umiliazione che però fu più tardi riscattata e che da allora viene considerata da ogni serbo l’inizio della resurrezione. Una bella storia che tuttavia non esclude i kosovari visto che essi hanno scelto di mantenere quel nome al loro Paese preferendolo alla traduzione albanese. Ma si sa, non c’è nulla che possa dividere gli umani quanto le cosiddette “identità”, soprattutto se esse affondano nella notte della storia.