L’addio è stato nel suo stile. Un microcosmo di Kobe Bryant, un condensato di 48 minuti che ha riprodotto, in qualche modo, la modulazione di una delle più grandi carriere Nba. Un inizio così così, con tanto coraggio e tanti errori, e poi la vittoria nel finale, sul filo di lana, con la sua firma su tutti i canestri decisivi. Nel suo futuro, a quanto pare, ci sarà una carriera da attore.
L’eroe è arrivato alla fine del suo viaggio dopo venti stagioni, cinque anelli e un numero sconsiderato di tiri presi, segnati e sbagliati. L’ultima tappa era contro gli Utah Jazz, la stessa squadra che, nel 1997, segnò il battesimo del fuoco di un 18enne Kobe, che scagliò quattrò airball verso il canestro avversario tra quarto quarto e Overtime, nella sconfitta fatale dei Lakers nelle semifinali della Western Conference.
L’ultimo capitolo è stato coerente con il resto della storia, con quello che Kobe ci aveva raccontato fino a ieri. E’ stato eccessivo, sfiancante anche solo da guardare (figuriamoci a farlo), pieno di errori e di grandezza. E’ stato, come spesso gli è accaduto, vincente. Feroce, e come si faccia ad essere così feroci a 37 anni, dopo aver vinto tutto ciò che si poteva vincere, in una gara che non aveva niente da dire al di fuori della celebrazione, è un mistero che rivela tutto ciò che bisogna sapere su Kobe. La migliore spiegazione del suo successo.
Hanno vinto i Lakers, ha vinto Kobe. Con la sua firma negli ultimi minuti, il canestro del sorpasso a trenta secondi dalla fine. L’ultimo morso del Mamba, probabilmente il più letale tra i campioni Nba, sicuramente il più affamato.
Il cerchio si chiude in a Kobe Way, con cinquanta tiri e sessanta punti. Numeri che solo lui. L’ultima volta che qualcuno aveva tirato tante volte in una partita non finita all’Overtime era stato sempre lui, la notte in cui ne scrisse 81 contro Toronto. Mai nessuno, ovviamente, aveva segnato tanti punti alla sua età.
Per lui contava vincere, anche se non contava nulla. Ma era la sua necessaria lettera d’addio ad uno Staples Center colmo di stelle (da Jack Nicholson a David Beckham, da Jay-Z a Magic Johnson), di lacrime e d’amore. Volevano esserci tutti, per assistere alla storia e cercare di farne parte, almeno per un pezzettino, nel giorno dell’ultima tappa del giro d’onore che ha trasformato uno dei giocatori più odiati della storia del basket (come sottolineato anche dall’argutissimo spot Nike in cui Bryant dirige i suoi “haters come i membri di un’orchestra) nel bersaglio degli applausi di tutti i palazzetti della Lega.
E’ quello che succede ai più grandi. Anche a quelli che ci hanno battuto, umiliato e addentato al collo. Quando sappiamo che se ne andranno, quando non fanno più così tanta paura, cominciamo ad amarli, ed è giusto così.
E per spiegare la grandezza di Kobe, forse, basta sapere che oggi si parla quasi soltanto di lui, anche se nella notte i Golden State Warriors, a pochi chilometri di distanza (almeno per gli standard Usa) da L.A. ottenevano la loro 73sima vittoria stagionale battendo i Memphis Grizzlies per 125 a 104 ed entrando a far parte della storia Nba.
Mai nessuno aveva vinto tante partita nel corso di una singola stagione. Neanche Michael Jordan, che in qualche modo, anche a distanza di anni, nella notte in cui il suo unico vero erede saluta tutti, rimane il riferimento perenne della grandezza Nba, e che si era fermato a 72, con i suoi Chicago Bulls, nel 1995-’96.
Ma forse il bello è proprio questo, alla fine. Che la storia è un ciclo che si rinnova sempre, e nel giorno in cui chiude i battenti l’epopea cestistica di Kobe Bryant, inizia già la narrazione della storia, leggenda in fieri, della Golden State di Stephen Curry.