“Se l’è andata a cercando al 50%“. Leonardo Bonucci di certo non ha visto l’intervista di Giovanni Minoli a Giulio Andreotti una sera di settembre dell’ormai lontano 2010. Se l’avesse fatto forse avrebbe evitato una frase simile finendo sulla graticola delle polemiche con l’accusa di stare con i razzisti che in quel di Cagliari hanno riempito lo stadio di “buu” all’indirizzo di Moise Kean quando il talentuoso giovane attaccante della Juventus sfogava la sua gioia per il gol segnato sfidando petto in fuori, orgoglioso della sua pelle nera, l’ululante curva degli ultras isolani.
Più che i razzisti, sabato sera alla Sardegna Arena c’era i soliti cretini che scaricano insulti contro il giocatore di colore della squadra avversaria, pronti a inneggiare a quello della propria. Brutta piaga da debellare il razzismo, specie in questo periodo di grandi migrazioni dove ormai le società sono multietniche. Ecco perché è il peggiore autogol che poteva fare Bonucci – tanto più un giocatore del suo calibro, uno dei tre pilastri della formidabile BBC juventina, quella che secondo Mourinho dovrebbe insegnare come difendersi nel calcio all’università di Harvard – uscendo a caldo con una frase che dà metà delle colpe di quei “buu” allo stesso Kean, suscitando subito lo sdegno di tanti “colleghi” di colore, da Thuram a Balotelli, da Sterling a Depay. Capita la mal parata, Bonucci ha cercato di rimediare dicendo di “essere stato male interpretato su un argomento per il quale non basterebbero ore e per il quale si lotta da anni” per terminare con “la condanna di ogni forma di razzismo e discriminazione”.
Se Bonucci fa uno sconto del 50% a Kean, non ne fece affatto Andreotti quando Minoli, in una puntata di “La storia siamo noi” gli chiese perché venne ucciso Giorgio Ambrosoli, il liquidatore delle banche di Michele Sindona. “Non voglio sostituirmi alla polizia o ai giudici – rispose Andreotti allora senatore a vita – Certo è una persona che, in termini romaneschi, se l’andava cercando”.
Una battuta che innescò reazioni a catena. “Parole che si commentano da sole”: lapidario fu il commento di Umberto Ambrosoli, il figlio dell’avvocato, l’eroe borghese del libro di Corrado Stajano, che pagò con la vita, in un agguato sotto casa in una sera di luglio del 1979, la sua meticolosa opera per snidare le trame e truffe messe in atto da Sindona.
Andreotti si accorse subito dopo della gaffe, tanto più pronunciata da un politico che per anni appoggiò le operazioni di Sindona fino a definirlo come “defensor lirae” e che pur assolto nel processo di Palermo sui rapporti tra politica e mafia non è mai riuscito a cancellare le ombre addensate su una carriera politica straordinaria che l’ha portato per sette volte a guidare il governo.
Come Bonucci oggi, anche Andreotti il giorno dopo disse di essere stato frainteso. Spiegò, in una nota, che con quel “se l’andava cercando intendevo fare riferimento ai gravi rischi ai quali l’avvocato Ambrosoli si era consapevolmente esposto con il difficile incarico assunto”. E a prova della sua buona fede Andreotti citò più volte il caso Finambro, la holding capofila delle finanziarie di Sindona, cui venne negato l’aumento di capitale, un’operazione ritenuta fondamentale da Sindona, proprio quando Andreotti era premier a Palazzo Chigi e al Tesoro c’era Ugo La Malfa, una bocciatura che aprì la prima crepa nell’impero sindoniano che di lì a poco si sfaldò, sprofondando nel fallimento della Banca privata italiana.