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K2, 70 anni dopo. Quando conquistare una vetta equivaleva a vincere una guerra

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C’è una contraddizione fortissima che si percepisce ancora oggi camminando sul ghiacciaio del Baltoro oppure ammirando al tramonto le cattedrali delle Trango Towers e gli 8mila che circondano Concordia: il Gasherbrum II, il Gasherbrum IV, il Chogolisa, il Broad Peak e, in fondo, la piramide del K2. È la contraddizione tra una natura che toglie il respiro per la sua forza indistruttibile e l’assoluta incapacità degli uomini di convivere pacificamente e godere insieme di questa bellezza.

Un “deserto dei tartari” moderno

Ancora oggi la regione del Nord del Pakistan, il Gilgit Baltistan e soprattutto la zona di confine con il Kashmir, è considerata tassativamente “restricted area”. Una zona militare, dunque, a causa del conflitto mai del tutto risolto che ha visto il Pakistan contrapporsi al ’47, come testimoniano gli accampamenti militari trasformati in discariche di immondizia e bidoni vuoti di kerosene, come si vedono a Gore II, Concordia o all’Army Camp di Paiju.

Un “deserto dei tartari”, con tutta la dose di angosciose attese; per dirla col bellunese e grande montanaro Dino Buzzati (che sulla conquista italiana del K2 scrisse pagine memorabili) che non doveva essere poi così diverso da quello che scoprirono i partecipanti alla spedizione guidata da Ardito Desio nell’estate del ’54.

Come le spedizioni commerciali hanno trasformato l’avventura del K2

È vero: ha ragione l’alpinista bolzanina Tamara Lunger (che sulla vetta del K2 arrivò dieci anni fa, nel 2014, e sulla montagna perse il suo fidanzato) a dire che rispetto al passato le spedizioni commerciali preparate attualmente dagli sherpa hanno trasformato lo stesso modo di avvicinarsi a un ottomila. Non c’è più quella dose di avventura che è ingrediente essenziale dell’esplorazione e del cosiddetto “stile alpino”.

Eppure, chi durante i 90 chilometri di trekking che separano il villaggio Askole (ultimo luogo abitato raggiungibile in Jeep del Baltistan) dal campo base del K2 si ferma un attimo per fotografare portatori e muli carichi all’inverosimile che spuntano da una morena del ghiacciaio e confronta quelle immagini con le foto della spedizione del ‘54 non vede tutte queste differenze. Ora ci sono ciabatte e scarpe di gomma improvvisate a proteggere i piedi dei portatori dal ghiaccio ma il contesto fatto di povertà, fatica e privazioni è lo stesso anche se oggi il Pakistan ha una classe media sempre più ricca in un Paese che può disporre perfino della bomba atomica.

Le vette come trofei di potere

Ancora guerra e montagna come una sorta surrogato “sportivo” ai conflitti tra Stati sovrani. Si è scritto tanto sul fatto che l’Italia di Einaudi e De Gasperi (due politici montanari nelle due parti opposte delle Alpi) “aveva bisogno di piantare la sua bandiera sul K2” per rinascere, scrollarsi di dosso il dolore e la vergogna della sconfitta nella Seconda guerra mondiale. Ma c’è di più. Il multilateralismo che la carta delle Nazioni Unite dal ’46 stava cercando di diffondere come antidoto ai nazionalismi e a nuove guerre devastanti non aveva ancora piantato radici profonde. Ogni Stato sovrano aveva dei suoi conti personali ancora da saldare fosse la volontà di riscatto, la capacità di emergere come potenza egemone o aprire una nuova fase nel postcolonialismo come il Regno Unito dove cominciava a regnare la Regina Elisabetta. 

La conquista di una vetta, insomma, come un altro modo di fare la guerra. Senza più sfondare le garritte dei confini o uccidere persone inermi ma piantare una bandiera lì dove mai nessuno aveva prima aveva posato il piede. Cominciarono i francesi con l’Annapurna il 3 giugno del 1950 con Maurice Herzog, già attivo nella resistenza francese, che guidò la spedizione per la conquista del primo dei 14 ottomila. Vennero poi gli inglesi il 29 maggio del ‘53 con l’apicoltore neozelandese Edmund Hillary e lo sherpa Tenzing Norgay sulla vetta più alta del mondo (8.848 metri) mentre il 3 giugno anche i tedeschi con Hermann Buhl sul Nanga Parbat (dove era portatore d’alta quota l’hunza Amir Mahdi che condivise il 30 luglio del ’54 la notte all’addiaccio a 8100 metri con Walter Bonatti per portare le bombole di ossigeno a Lacedelli e Compagnoni). Buhl aveva ridato alla giovane Repubblica federale tedesca l’onore che le spettava oscurando quella bandiera nazista fatta sventolare dal bavarese Anderl Heckmair sulla parete Nord dell’Eiger il 24 luglio del 1938.

La conquista italiana della cima leggendaria

L’Italia arrivò quarta nella corsa agli 8mila il 31 luglio del ’54 ma sulla cima più difficile e insidiosa che già da decenni era diventata la “montagna degli italiani” per le spedizioni del Duca degli Abruzzi, di Vittorio Sella e dello stesso Desio. Il K2 andava infatti “conquistato ad ogni costo”, questo il “mantra” di Ardito Desio che condusse la spedizione con piglio quasi militare evitando non a caso di inserire nell’impresa scalatori anche fortissimi come Riccardo Cassin che per il loro carisma avrebbero oscurato il ruolo dello stesso capospedizione esercitando un’innegabile influenza sugli altri membri della spedizione.

Desio venne pienamente supportato nel suo progetto non solo dal Cai, dal Cnr e dal Coni che investirono per l’impresa una somma complessiva superiore agli 80 milioni di lire dell’epoca, ma dallo stesso premier De Gasperi che promise al presidente pakistano Mohamed Ali Bogra, in visita in Italia nell’estate del ’53, l’avvio di lavori per la costruzione di dighe che servivano per garantire al Nord del Pakistan forniture stabili di energia elettrica. La spedizione a stelle e strisce guidata dal medico americano Charles Houston che non era riuscita a conquistare il K2 nel ’53 voleva tentare l’anno successivo ma il Pakistan puntò tutto sull’Italia e l’America restò beffata.

L’eredità italiana del K2

A sentire oggi Agostino da Polenza, presidente del comitato Everest K2 Cnr e principale collaboratore di Ardito Desio fino alla costruzione della Piramide osservatorio al campo base dell’Everest, quella grande fiducia che il Pakistan ripose 70 anni fa sull’Italia alla fine è stato un buon investimento. Numerosi negli anni sono stati i programmi di cooperazione allo sviluppo della Farnesina e di varie Organizzazioni internazionali finanziate dall’Italia per sostenere la popolazione del Gilgit Baltistan, creare un grande parco del K2 con sede a Skardu, allenare una nuova generazione di guide pakistane e mappare tutti i 13 mila ghiacciai pakistani, riserva inesauribile per dare acqua a tutta l’Asia. 

I baci che martedì scorso Da Polenza ha stampato sulle fronti delle ultime due alpiniste della missione Cai K2 70 Federica Mingolla e Silvia Loreggian, al loro ritorno, sfinite, al campo base dopo giornate difficili tra maltempo e mal di montagna trascorse ai campi 2 e 3 (purtroppo senza il coronamento della vetta) ha voluto dire anche questo: non ci sono più guerre da combattere, la montagna resta lì, ancora per un’altra volta.

Bello e significativo per una missione che voleva essere italiana ma anche rendere omaggio al Pakistan, Paese ospitante, vedere il portatore d’alta quota Alì Durani, di Hushe, attrezzare per le italiane i campi alti e poi, alla fine, arrivare da solo in vetta (per la terza volta) anche se con ossigeno. L’ho visto bene Ali Durani al campo base del K2 quando prendeva diligentemente nota di tutte le istruzioni che impartiva Da Polenza. Aveva negli occhi molta timidezza ma anche una determinazione quasi felina. Una specie di leopardo delle nevi che, al riparo da ogni occhio umano, aveva solo un desiderio: diventare parte di quella neve, di quel ghiaccio, di quella roccia.

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