A metà agosto il Dipartimento di giustizia Usa ha formalmente incriminato due dipendenti di alto livello di JPMorgan per lo scandalo derivati che ha creato un buco da 6,2 miliardi di euro. Non si tratta di Bruno Iksil, il personaggio più famoso dello scandalo, il trader da cui si è originata la perdita monstre e soprannominato così la “balena di Londra”. Iksil sta collaborando con gli inquirenti ed è riuscito a dimostrare tramite mail di avere provato ad avvertire i superiori della gravità della situazione ma di non essere stato ascoltato. I superiori, che respingono ogni accusa, sono lo spagnolo Javier Martin-Artajo, alla guida dell’unità sui derivati e il francese Julien Grout, che registrava le valutazioni quotidiane sulle posizioni della banca sui derivati. Per l’accusa Grout è colpevole di aver deliberatamente minimizzato le perdite del team.
Ma il caso JpMorgan non è solo una storia di possibili illeciti. Proprio pochi giorni prima di un altro possibile scandalo, quello rivelato dal NY Times sulle indagini della Sec per sospette assunzioni di figli di papaveri in Cina, l’economista Jan Kregel ha messo in luce in un interessante studio (“More swimming lessons from the london whale”, dove Kregel, senior scholar al Levy Economics Institute of Bard College, New York, approfondisce e analizza le conclusioni del report della sottocommissione del Senato Usa) che i problemi di JPMorgan hanno un significato sistemico, chiamano in causa la gestione delle grandi banche e accendono un faro su alcuni problemi che non verranno risolti con la rimozione dei responsabili dello scandalo derivati. Di alcuni di questi abbiamo già parlato in precedenti approfondimenti: c’è il tema di una banca talmente cresciuta in dimensione e complessità da essere troppo grande perché il management avesse una chiara idea della situazione reale; e c’è il dibattito sul trading proprietario (che secondo Kregel non è un problema di per sé) e su un sistema finanziario che permette alle banche di operare in tutti i campi della finanza.
Infine, qui giova soffermare l’attenzione su un altro dei punti caldi messi in luce da Kregel e non abbastanza ricordato: il problema di come viene gestita la remunerazione della divisione Cio (chief investment office). In breve, le strategie che avrebbero potuto ridurre le perdite della “balena” avrebbero implicato grandi costi che il management della divisione Cio, la cui remunerazione è guidata dalla profitabilità della propria unità, non voleva sopportare. Spiega Kregel: “Una unità di hedging (dove lavorava il trader Iksil, ossia una unità la cui funzione è investire la liquidità in eccesso e occuparsi della copertura dei rischi strategici della banca, ndr) incorre in perdite nella maggior parte del tempo quando la strategia operativa della banca e la valutazione dei crediti sono gestiti bene; genererà profitti solo in periodi di crisi. Di conseguenza era totalmente inappropriato remunerare le operazioni del Cio sulla base della profitabilità”.
Da un lato quindi ci sono i trader del Cio che si trovano dopo il 2010 in una situazione più complessa di quella precedente (quando l’attività di hedging ha funzionato senza problemi) perché in un clima che generava aspettative di ripresa economica si trovavano a dover coprire nuove aree di rischio senza che il management riuscisse a dar loro dar loro un mandato preciso (senza entrare nei tecnicismi basti citare l’ingente portafoglio di trading asset ereditato con l’acquisizione di Bear Stearns o i depositi e gli asset dubbi legati alle attività di un’altra banca acquisita, Washington Mutual, combinati a un cambio delle condizioni macro e alle imbarazzanti perdite del fallimento di Eastman Kodak).
Dall’altra parte, mentre si dibattevano in mandati contradditori, i trader cercavano di continuare a generare profitti (perché da questo dipendeva la remunerazione). I guai non derivano quindi dall’hedging o dal trading proprietario in sé. Ma “Il problema – conclude Kregel – è il fallimento nell’accettare che tale attività ha un costo e quindi non può essere un centro di profitto”.